
regia: Darren Aronofsky
produzione: USA, 2022 – 117’
visto: Cinema Jolly
Gli ultimi giorni di vita de Il Baleno, un ciccione disperato convinto di essere il centro del mondo.
Darren Aronofsky è uno di quegli autori che si aspettano sempre al varco, capace di firmare cult come Requiem for a dream e Il cigno nero, ma anche discreti fiaschi come Noah e il controverso Madre!
Appena presentato a Venezia 2022, la critica ha subito collocato The Whale nel mezzo, riconoscendolo nel canone tipico del regista ma rimarcando un cedimento ai facili pietismi.
Il film riprende l’opera teatrale di Samuel D.Hunter, che ne cura anche la riduzione.
Si tratta quindi di un dramma da camera, ambientato in pochi interni e che vive per lo più di dialoghi.
Questi dialoghi, oltre a svelare man mano i segreti dietro la storia, toccano temi e spunti variegati, dalla letteratura alla religione, che tratteggiano i caratteri dei personaggi, a volte sfumandoli e a volte facendoli brillare.
Il Baleno è un omone di duecento e passa chili che vive rinchiuso in un appartamento dove non esistono né notte né giorno, ma solo la cupa penombra del limbo, dell’attesa. Fuori, intanto, piove quasi sempre.
Charlie – questo il suo nome – non si muove dalla poltrona, si lava con una spazzola, e quando qualcosa gli cade dalle mani non ha modo di raccoglierla se non aiutandosi con una pinza telescopica.
Si mantiene curando e correggendo online le tesine di giovani laureandi dai quali si nasconde, occultando la webcam e difendendo una clausura che viene comunque spezzata da alcune figure che si relazionano a lui e alla sua scelta estrema.
L’infermiera Liz, sorella dell’amato Alan, morto suicida e causa dichiarata dell’autodistruzione di Charlie, lo accetta completamente nel bene e nel male, e mentre con una mano gli aggiusta la flebo, con l’altra gli allunga un panino. La sua neutralità è tuttavia l’esatto contrario dell’indifferenza, anzi, la forza con cui assiste e protegge l’amico fino alle estreme conseguenze è il massimo grado dell’empatia e fa di lei il personaggio più riuscito del film.
Il giovane Thomas, missionario della chiesa pentecostale New Life – cui apparteneva lo stesso Alan – riproduce le mosse di una società ambigua, che dietro l’apparente slancio salvifico intende comunque imporre una morale. Riconosce nel dolore di Charlie il giusto prezzo per i suoi peccati, gli offre una specie di perdono, ma in cambio gli chiede l’abiura.
Ellie è infine la furiosa figlia sedicenne, che rinfaccia al padre di averla abbandonata mentre lui cerca disperatamente di riscattarsi. Incarna, se vogliamo, le conseguenze ineluttabili di azioni irredimibili.
Nella scrittura di questi quattro personaggi/archetipi: il peccatore, la santa, il salvatore e la vendicatrice, (tutti programmaticamente privi di cognome), si può ben riconoscere l’impianto dell’opera teatrale, che ragiona sui concetti di colpa, condanna, salvezza e redenzione da una prospettiva spirituale.
Charlie non è solo grosso, è gigantesco. Quelle poche volte che si alza in piedi, gli altri lo guardano come qualcosa di disumano e terrificante. La sua mole rappresenta la dimensione dei suoi dispiaceri e soprattutto il modo in cui questi possono soverchiare chiunque.
Nel gioco della metafora, la colpa enorme che Charlie si assume è quella dell’omosessualità.
A differenza di tanti altri drammi in cui questo tratto, seppur presente, viene lasciato sullo sfondo o comunque limitato a elemento caratterizzante, in questo caso diventa un tema centrale. La scelta di abbandonare la famiglia per inseguire l’amore di un altro uomo è un trauma che né l’ex-moglie né la figlia riescono a perdonare, e lo stigma che si abbatte su Alan, da parte della famiglia e della chiesa, è il sopruso che lo spinge al suicidio.
Ma essendo l’omosessualità una condizione e non una scelta, non può certo essere vissuta come una colpa, a meno di non violentarsi l’anima scatenando atroci conseguenze.
La metafora torna allora al mitologico romanzo di Melville, che corre per tutto il film come una corda che tiene insieme tutto, poiché inseguendo un dolore che è allo stesso tempo interno ma irraggiungibile, Charlie diventa la balena bianca di se stesso. La lotta che Achab ingaggia con Moby Dick, Charlie la scatena contro la sua natura. Nonostante le battute e le difese dialettiche, infatti, l’uomo soffre indicibilmente per il sapersi come è. Per questo rifiuta gli altri, per questo si isola e si distrugge, assumendo su di sé la convinzione di essere sbagliato e di non poter appartenere al consesso umano.
Hunter sviluppa il suo racconto particolare appoggiandosi all’omosessualità come pretesto emblematico delle contraddizioni e delle problematiche che può infiammare, ma in generale, le riflessioni che ne nascono possono essere traslate e declinate su qualsiasi piano esistenziale.
Pur rispettando la natura del dramma, Aronofsky sposta lo sguardo su ciò che più gli interessa: la sofferenza umana.
Il suo Charlie non è solo grosso e gigantesco: è un panzone ributtante.
Il regista insiste molto sul disgusto che il Baleno provoca negli altri; non si limita a mostrarlo enorme, ma spinge sugli aspetti più repellenti e umilianti per sottolinearne la distanza dal mondo e l’abisso della condanna che si autoinfligge.
Il personaggio interpretato dal redivivo e applauditissimo Brendan Fraser è respingente sotto tutti i punti di vista, non solo da quello fisico ma anche nelle sue relazioni con gli altri. Nonostante l’ostentato isolamento infatti, viene continuamente cercato e raggiunto da persone che gli vogliono bene e che in definitiva non riescono a odiarlo. Eppure non manifesta verso di loro nessuna cura, non chiede mai cosa vogliano o cosa desiderino, ma, come nel caso della figlia, in cui non riconosce una piccola stronzetta, li idealizza e li usa per proiettare i suoi rimpianti e le sue nostalgie.
Emerge dal grasso, dai sughi e dalle merendine, il carattere egocentrico di un uomo che si fa giudice, giuria e boia di se stesso, escludendosi dal confronto ma esigendo attenzioni e riguardi. Mentre tutti cercano il modo di aiutarlo, lui si limita a ripetere un lamentoso “mi dispiace”, imponendo il proprio disastroso comportamento senza mai intraprendere nessuna azione correttiva.
Il Baleno usa il cibo come una pistola, e anche nel momento in cui decide di svelarsi ai suoi studenti, non lo fa per rispetto o per chiedere aiuto, ma perché desideroso di una platea degna di un’esecuzione sulla pubblica piazza che possa regalargli un finale glorioso.
Aronofsky mette ancora una volta in scena il delirio di un’esistenza eccessiva e disperata. Lo fa come sempre senza giudicare, mostrando le conseguenze di scelte individuali e l’impotenza di affetti che nulla possono di fronte al furore di chi perde il senno o vi rinuncia devastato da turbe inestricabili.
Forse per timore di discostarsi troppo dalla lettura di Hunter, prova a ricucire lo spazio cercando sul piano retorico dei rinforzini di cui la storia non avrebbe per niente bisogno. Si spiegano così certi goffi ammiccamenti alla lacrima facile che somigliano più che altro a degli inciampi e che fanno propendere il giudizio verso un risultato non totalmente riuscito.
Resta la storia, sicuramente commovente, di un sacrificio umano consumato non per un ideale, ma piuttosto per un’idea incistita, e resta il rimpianto per il destino esemplare di tutti quegli uomini che potrebbero salvarsi e che invece non lo fanno.