
Regia: Nicolas Winding Refn
Produzione: Danimarca, 2022 – 6 episodi
visto: Netflix
Dici Cowboy e pensi alla frontiera, alle pistole, a una terra senza legge. I primi tre episodi della nuova serie di Nicolas Winding Refn si muovono nel sottobosco criminale di una città che sappiamo essere Copenaghen solo perché c’è scritto nel titolo. Per non perdersi bisogna seguire Miu, piccola e magra che sembra un ragazzino. Come Buster Keaton, Miu è una maschera che non ride mai, non si sa da dove arrivi, né quale sia il suo vero nome. Si dice però che porti fortuna, e da quando era bambina viene venduta da un padrone all’altro perché si avverino desideri e ricchezze. Una vecchia matta, sorella di un magnaccia albanese, la compra sperando di restare incinta. Seguono eventi che portano Miu a incontrare prima l’enigmatica proprietaria di un ristorante cinese, poi la banda della Triade che la ricatta, quindi a fare la pusher per il racket dell’untuoso avvocato Miroslav. In mezzo ci sono anche un allevamento di famelici maiali e un serial killer maniaco dal sangue blu. Già, blu. Il blu e il rosso sono i colori che illuminano questa fiaba urbana che artiglia il fango su cui cammina mentre spiega ali di pipistrello verso orizzonti stregati.
Quando nell’estate del 2019, Nicolas Winding Refn si è presentato in Piazza Maggiore per la proiezione estiva di Drive, non ha fatto una grande figura. Le sue battute e i suoi atteggiamenti marpioneschi sono sembrati piuttosto fuori luogo, e in generale ha lasciato l’impressione di essere un po’ viscido. Una nota che per quanto sgradevole aiuta a leggere sia il formidabile Too old to die young, che questa sua ultima fatica. Dal punto di vista della perversione, il regista danese non è mai esplicito, eppure sa benissimo dove indirizzare lo sguardo e le pulsioni del suo pubblico, per attirarlo in territori scabrosi e renderlo complice delle sue canaglierie. Una strada torbida per raggiungere l’empatia, perfetta per invischiarsi nel pantano del “vorrei ma non posso”, che al solo affiorare scatena la vergogna e la voglia. Come nella canzone di Vasco, Refn dice allo spettatore: So che hai queste deviazioni, lo so perché le abbiamo tutti. La donna oggetto, l’incesto, la violenza, la sopraffazione, la vendetta, il desiderio di voler essere perdonato. Copenhagen Cowboy è un catalogo di pulsioni attraversato da una spada. Che è Miu, che veste di blu.
E qui si torna ai colori. Cromaticamente il blu e il rosso non sono complementari, ma sono entrambi così carichi di significati e di associazioni che si contrappongono automaticamente: freddo e caldo, calma e pericolo, acqua e fuoco, tristezza e furore. Merseyside blu e Merseyside red.
Eppure, anche se l’ultimo episodio sembra proprio esplicitare questo inquadramento, sarebbe quantomeno impreciso credere che Refn abbia voluto dividere il mondo in buoni e cattivi.
Fin dall’inizio, ogni inquadratura è connotata da un tono, dall’altro, o dal contrasto di entrambi. Che siano gli abiti, le luci, o un qualsiasi elemento decorativo, i due colori non restano mai fedeli a un determinato personaggio, ma si scambiano di posto, impegnati a conquistare ora questo, ora quello. Perché la cosa importante non è tanto dove stiano di casa i buoni e dove i cattivi, ma che tutti quanti siano costantemente impegnati in uno scontro, in un conflitto. Cedere alle pulsioni o contenerle? Fidarsi o approfittarsi? Attendere o colpire? Quasi tutti i personaggi affrontano, prima o dopo, una di queste scelte: il magnaccia con la figlia ribelle, l’avvocato slavo nei confronti di Miu, Mother Hulda con il suo spietato capo, eccetera. Quasi tutti mostrano, prima o dopo, un lato antitetico rispetto alle premesse. Dico quasi tutti perché nella serie ci sono due classi di personaggi, quelli più terreni, legati alla criminalità e al denaro, e quelli che sembrano appartenere a una sfera diversa, mossi da ideali e da visioni. La decadente famiglia patrizia, che conosciamo tramite alcuni spaccati immorali, intrattiene rapporti col gruppo di finanziatori del citato Miroslav, caldeggiando i valori di un patriarcato che più freudiano non si può, ergendo il cazzo a simbolo della costellazione di valori che muovono e agitano gli strati subalterni.
E insomma questo è un po’ quello che Copenhagen Cowboy racconta, come lo racconta invece è dentro a una favola oscura, con porci, streghe e cacciatori, che comincia in luoghi artificiali, capannoni e fabbricati illuminati dai classici neon e finisce nel pallido mattino di una macchia boschiva.
Una commistione tra urbanistico e selvatico, artefatto e ancestrale, che richiama Twin Peaks senza malizia, d’altronde Refn non è mai stato così lynchiano come qui, dove all’interno del suo stile iper-barocco, privilegia sfarfallii e atmosfere paurose.
Se verso metà della corsa la narrazione sembra rallentare e appoggiarsi, la serie rimane comunque sorretta dalla potenza delle immagini del danese, dal suo gusto inconfondibile e dalla forza di personaggi che continuano a chiedere di essere interrogati, tenendo in vita l’impressione di un senso dietro a tutti quegli ornamenti e a quella stravaganza.
Anche stavolta, come in Too old to die young, l’ultimo episodio si chiude con un rilancio e con la promessa di un seguito, la cui realizzazione resta però appesa alle speranze dei tifosi.
Refn a me più che viscido sembra megalomane, per le interviste che ho visto (in un dialogo con Friedkin quest’ultimo a un certo punto chiede di chiamare un’ambulanza, giustamente)…
Non sapevo si fosse dato alle serie pure lui!
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Per me questa è meno potente della precedente. Too old to die young è uscita per Amazon Prime Video. Se riesci, consiglio il recupero.
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Ci proverò, grazie! :–)
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