
Regia: Park Chan-wook
Produzione: Corea del sud, 2022 – 138′
visto: Cinema Rialto
Un raffinato giallo per cinefili, tra Basic Instinct e Romeo e Giulietta, che nonostante i rimandi, va più vicino a Kim Ki-duk che a Hitchcock.
Corea del Sud, città di Busan, gli ispettori Jang Hae-joon e Oh Soo-wan sono sulle tracce di un killer che non riescono a trovare. Dei due, Hae-joon è quello più bravo e più accanito, e anche quello più stanco. Siccome la notte non riesce a dormire, si dedica ai pedinamenti, mentre il collega lo tiene sveglio per telefono. Vede la moglie solo nei weekend, perché lei lavora lontano, nella centrale nucleare della grigia Ipo. È una scienziata che ha una visione analitica e che tende a inscatolare la vita di coppia dentro a un sacco di statistiche.
In tre o quattro minuti, Park Chan-wook tratteggia tutti gli elementi che servono a inquadrare il personaggio principale e l’ambiente in cui si muove. Il vero film comincia quando i due poliziotti vengono chiamati a investigare sulla morte di un uomo di mezza età precipitato da una rupe altissima. In breve salta fuori che si tratta di un funzionario dell’immigrazione che aveva lasciato delle lettere in cui confessava di essere al centro di un giro di mazzette. Salta fuori però anche che Song Seo-rae, la giovane e affascinante vedova, è un’immigrata cinese che fa di tutto per essere sospettata dell’omicidio. L’indagine porta l’ispettore Jang a pedinare e spiare la donna, ma più si avvicina alla sua vita, più se ne sente attratto, fino a quando non diventa più chiaro se stia lavorando per inchiodarla o per scagionarla.
Il film di Park Chan-wook ha un andamento simile alla scalata, e alla successiva discesa, della rupe al centro del delitto. La prima ora è costruita sui tempi e i modi del thriller, con soluzioni registiche brillanti che portano Hae-joon a condividere e invadere gli spazi e la vita della bella Seo-rae, mentre lo spettatore non riesce a staccare gli occhi dallo schermo per paura di perdersi qualche indizio o sfumatura. L’alterità della donna, il suo essere cinese, il suo linguaggio a volte artefatto, amplificano l’ambiguità di ogni suo gesto, rendendo la posizione del detective sempre più confusa, per lui, e avvincente, per noi. La relazione tra i due tiene continuamente sulle spine, ma una volta sciolto l’enigma, quindi una volta arrivati in cima alla rupe, comincia una discesa che in gran parte abbandona la tensione del poliziesco per addentrarsi nei risvolti sentimentali. Se nella prima ora vediamo con gli occhi e con il cuore del nobile Hae-joon, nella seconda parte siamo portati a interrogarci molto di più su Seo-rae, la cui vera natura è rivelata nel lirico e struggente finale. Il problema è che prima di questo finale ci sono almeno una quarantina di minuti in cui, anche se continuano a succedere delle cose, non è per niente chiaro cosa il regista abbia ancora da dire sui suoi personaggi.
Gli accostamenti che vengono da fare con La donna che visse due volte sono naturali e voluti, così come i tanti rinvii hitchcockiani, ma tutto lo sviluppo dei rapporti e soprattutto il peso che gli si dà, mi hanno fatto pensare più al compianto Kim Ki-duk che al maestro inglese. Se in Vertigo cresceva una componente di perversione e di follia, dentro a Decision to leave evolve un sentimento diverso, più vago e indecifrabile. Non che sia lasciato indietro alcunché, solo che certi passaggi della scrittura non appaiono altrettanto a fuoco come invece il linguaggio cinematografico usato. Ecco, forse l’impressione finale è proprio che si tratti di un film dove lo stile, seppur di poco, prevale sulla storia, un taglio che in termini assoluti non disturba affatto, ma che potrebbe non arrivare agli spettatori meno attenti o preparati.