
Regia: Martin McDonagh
Produzione: Irlanda, USA, Gran Bretagna, 2022 – 114′
visto: Cinema Lumière
Un film bellissimo che è già un classico. Intenso, pieno di personaggi memorabili e panorami struggenti, che parla della guerra civile senza parlare mai della guerra civile.
Sembra proprio che Pádraic e Colm abbiano litigato. Ma Pádraic non riesce a capire, o a ricordare, per quale motivo ColmSonnyLarry, come lo chiama lui, non voglia più parlargli, men che meno bere una pinta di scura insieme. All’inizio il motivo del litigio non si capisce, quello che si capisce è che Pádraic è un uomo mite e che Colm è un uomo solo. Questi, più vecchio e corpulento, vive isolato in una casa davanti al mare in compagnia del suo cane. Anche la casa di Pádraic sta da sola in mezzo ai prati, ma si tratta di una piccola fattoria, con la stalla delle vacche, un puledro e un’asinella come animale domestico. Soprattutto però Pádraic abita insieme alla sorella Siobhán, una ragazza forse troppo sveglia per il resto degli abitanti dell’isola di Inisherin, così piccola che la domenica il prete deve arrivare dalla terraferma, come loro chiamano l’Irlanda.
Inisherin è un’isola che non c’è. Cercando su Maps, la cosa che le somiglia di più, per dimensioni e paesaggi, è Inisheer, al largo di Galway, sulla costa occidentale, ma da quello che si vede nel film, la città di là dal mare di cui si sentono i cannoneggiamenti dovrebbe essere Dublino. È infatti nella capitale che nel 1923 si consumarono gli ultimi mesi della guerra civile, scoppiata quando la concessione di una semi autonomia da parte del Regno Unito spaccò in due il fronte indipendentista che fino al giorno prima aveva combattuto compatto gli inglesi.
Il film di McDonagh non dà nessun riferimento esplicito sul contesto storico e sul conflitto fratricida, si limita a lasciarlo – letteralmente – sullo sfondo. Si vedono in lontananza le esplosioni e i fumi della battaglia, si vede ridipingere di verde le cassette rosse della Royal Mail, si sente qualcuno parlare di esecuzioni, ma senza avere per niente chiaro di chi e per che cosa.
Quello che invece fa è raccontare la storia piccola di due amici che per certi motivi prendono a odiarsi, in un’escalation tra il grottesco e il dramma che fa crescere i personaggi fino a livelli shakespeariani.
Il titolo originale, The Banshees of Inisherin, si riferisce agli spiriti femminili che con il loro canto o il loro lamento, annunciano la morte. Anche se all’interno c’è una spiegazione che suona come un depistaggio, la presenza di una figura che le ricorda in modo così esplicito obbliga a considerare questo simbolo luttuoso all’interno del discorso del regista. Se infatti il film comincia coi ritmi della commedia, evolve piano piano in qualcosa di più oscuro e grave. Il conflitto tra i due ex-amici diventa un buco nero che tira dentro altri personaggi, ai quali non resta che soccombere o scappare. A dare corpo e voce a queste vittime collaterali sono Kerry Condon e il sempre più bravo Barry Keoghan, il Dustin Hoffman di questi anni, che anche in un ruolo da sidekick, a momenti ruba la scena agli ottimi Colin Farrell e Brendan Gleeson.
La grandezza della sceneggiatura, però, sta nel costruire un’allegoria in grado di fare perfettamente a meno dell’oggetto del suo nascondimento, la cui presenza, una volta svelata, non può che arricchire ulteriormente una storia già perfetta, emozionante e universale.
Anzi, se sotto una certa lente, la dimensione politica può risultare discutibile, nulla si può dire sullo strato umano del racconto.
Volendo infatti, con un certo margine, si possono anche identificare le fazioni in lotta che i due litiganti rappresentano. Se Colm è più militante, pervaso dai grandi ideali e assolutamente più radicale, e quindi spiritualmente più vicino a Eamon Valera e agli elementi dell’IRA che rifiutarono il trattato e lottarono fino ad automutilarsi il futuro, Pádraic è più pacato, più semplice (al limite dello stupido), ma anche più ancorato alla terra, agli affetti, al vivere una vita tranquilla, e il suo atteggiamento può essere paragonato a quello degli uomini di Micheal Collins, che nello Stato Libero d’Irlanda intravedevano i prodromi della Repubblica. Ma i motivi che allontanano i due personaggi non hanno niente a che vedere coi fatti del ’23, con la malinconica e irresistibile vita del pub, con gli incredibili paesaggi, sono invece questioni esistenziali che ogni uomo, prima o dopo, arriva a porsi. Come vivere la propria vita? Cosa lasciare dietro di sé? Quali persone cercare di tenersi vicino? Personalmente confesso di essere anche andato in crisi a un certo momento, davanti a uno scambio di battute che era come se mi spaccasse a metà. Perché Martin McDonagh è talmente bravo (più bravo che in Tre Manifesti a Ebbing, a mio parere) da creare una tensione fra due poli tra i quali scegliere è impossibile. Lavorando sull’ambivalenza insita in ognuno, porta fuori l’assurdo della natura umana, sempre pronta a sognare e sempre incapace di rassegnarsi. Tra l’altro, collocarsi nel 1923, esattamente a cent’anni di distanza, chiama inevitabilmente a riflettere su un presente in cui, tra le polemiche sul covid e i vaccini, l’ambiente, la politica e le troppe pulsioni identitarie, non mancano episodi freschi di guerra civile, seppure a bassissima intensità.
Ma, come detto, il film vive e respira benissimo anche senza queste digressioni e parallelismi, perché è capace di rapire i sensi e di trasportare lo spettatore dentro case spoglie, con muri larghi un braccio, in mezzo a labirinti di muretti a secco che proteggono campi spazzati da venti che gli alberi li ammazzano sul nascere, tra le beghe, gli eroi e le leggende di una piccola isola e del suo commovente micromondo.