
Regia: Damien Chazelle
Produzione: USA, 2022 – 183′
visto: Cinema Lumière
Mi piacerebbe essere lineare parlando di questo film, ma per la sua natura torrenziale non sarà facile. Siccome potrei tirarla per le lunghe, anticipo da subito il mio giudizio, che è positivo. Tre ore e passa, esagerate sotto ogni aspetto, nel bene e nel male, con dentro dei punti sicuramente scomodi, e altri francamente inutili o anche imbarazzanti, ma proprio per questo uno spettacolo che non si vedeva da tempo in un film hollywoodiano. Perciò, se la domanda è vederlo o non vederlo, la risposta è vederlo. Assolutamente.
Segue rece
“L’angelo mi trasportò in spirito nel deserto. Là vidi una donna seduta sopra una bestia scarlatta, coperta di nomi blasfemi, con sette teste e dieci corna. La donna era ammantata di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle, teneva in mano una coppa d’oro, colma degli abomini e delle immondezze della sua prostituzione. Sulla fronte aveva scritto un nome misterioso: Babilonia la grande, la madre delle prostitute e degli abomini della terra. Allora mi accorsi che la donna era ubriaca del sangue del popolo di Dio e del sangue di quelli che sono morti per la fede in Gesù.” (Apocalisse, 17:1-6)
Sarebbe bello se Damien Chazelle si fosse ispirato a questo passo dell’Apocalisse di Giovanni, invece dietro la grande baraonda di Babylon sembra proprio ci sia solo il quasi omonimo romanzo di Kenneth Anger, raccolta degli scandali e dei pettegolezzi più osceni sulla Hollywood dei primi anni Venti e oltre. Anzi, pare che il regista si sia pure lasciato scappare che il modello per il furente baccanale che apre le danze siano le feste gravide di decadenza di Babylon Berlin, splendida serie tedesca che si contende con The Americans il premio per quella più sottovalutata degli ultimi dieci anni.
Le premesse sembrano insomma escludere ogni ambizione lirica, o per lo meno ridimensionarla, e dare ragione alle critiche più feroci che si sono abbattute, soprattutto dal mondo anglosassone.
Di certo Babylon, per come comincia e per come si pone, richiama da subito reazioni forti, che dopo un’apnea così lunga, funzionano anche come una vera liberazione. Io, per esempio, l’ho visto con un’amica, e in effetti, anche se all’inizio volevo solo vedere Margot Robbie nuda, ci sono stati dei momenti in cui mi sono sentito un po’ come Travis Bickle, quando porta Betsy a vedere il film porno in Taxi Driver.
Poi però mi veniva in mente quell’altra mia amica, che da vent’anni vive negli Stati Uniti, e che l’ultima volta che ci siamo visti, agli Uffizi, mi raccontava di come i suoi figli, nativi americani, si stupiscano dei nudi presenti nei dipinti e nelle statue in Italia, un aspetto che, mi diceva, di là dal mare è vissuto in maniera piuttosto problematica.
L’idea che mi sono fatto del lavoro di Chazelle, quindi, e sulla quale si è costituito il mio giudizio, è che tutta questa ostentata provocazione, spinta così irruentemente, sia il tentativo – certamente puerile e sgraziato – di parallelizzare il clima del Cinema pre-codice Hays, con quello odierno, in cui spesso si ha l’impressione che gli impulsi creativi vengano castrati dall’ombra di quel senso comune che alcuni chiamano cultura woke.
A scanso di equivoci, non sono personalmente tra questi, e a differenza per esempio degli editorialisti de Il Foglio, non trovo niente di sbagliato nel mettere in discussione comportamenti e atteggiamenti consolidati in favore di altri più inclusivi, come si dice oggi. Mi chiedo però se in campo narrativo e artistico, i risultati di tutto questo camminare sulle uova vadano nella direzione sperata, o se invece finiscano per limitare non solo la libertà artistica degli autori (concetto relativo), ma una rappresentazione più aderente della realtà.
La convinzione che quel prologo così eccessivo sia da leggersi come uno sguaiato vaffanculo all’atrofia e al conformismo della Hollywood di oggi, è rafforzato dalla comparsa del titolo solo dopo la scena DELLA FESTA, a trenta minuti dall’inizio del film.
Ma veniamo al film, appunto. 1927, su qualche collina fuori da Los Angeles. Manuel “Manny” Torres è un giovane messicano che si propone per qualunque lavoro o lavoretto lo possa avvicinare a un set. Nel cinema sogna una vita diversa, avvincente, sorprendente. A una festa, anzi ALLA FESTA, conosce l’aspirante attrice Nellie Le Roy (Margot Robbie, scatenata, magnetica, incontenibile, unica vera spina dorsale di tutto il film). A QUELLA FESTA, Manny ha portato un elefante vivo, cosa che mette particolarmente in agitazione la jazz band in cui suona Sidney Palmer (Jovan Adepo), trombettista ricco di tanto talento e di orgoglio. Dopo venti minuti pieni di assoluto delirio, musica e ogni tipo di oscenità, per Manny LA FESTA finisce a casa di Jack Conrad (un Brad Pitt cialtroneggiante come lo vorremmo vedere sempre), stella del muto col desiderio forte di elevare il Cinema al rango delle arti più rispettate. E di bere.
Anche se il film comincia e finisce con il factotum Manny, ed è quindi lui a essere il protagonista, questi quattro sono i personaggi scelti per raccontare il periodo dal 1927 al 1932, quando l’integrazione del sonoro nella pellicola spazzò via tutto quello che era stato il mondo precedente.
All’elenco dei topoi classici, come amore e morte, il viaggio dell’eroe, la discesa agli inferi, l’età dell’oro eccetera (molti dei quali presenti tra l’altro nel racconto di Chazelle), la modernità ne ha aggiunto uno nuovo: il passaggio dal cinema muto a quello sonoro, diventato l’emblema di tutto ciò che si perde quando si lascia la via vecchia per la nuova. L’argomento è stato trattato tante volte, The Artist (2011) è solo l’esempio più nitido e più vicino, ma il film attorno a cui Babylon sviluppa la sua idea è Singing in the rain, del 1952. Di certo Babylon racconta un sacco di altre cose, oltre ALLA FESTA ci sono maxi-sequenze epocali, come la battaglia medievale, la ricerca affannata di un’ultima cinepresa o la discesa nei sotterranei di un terrificante club infernale, ma rivedere Singing in the rain il giorno dopo, fa davvero una certa impressione, perché i dettagli e le citazioni che riprende sono così precisi da dare la sensazione di una versione alternativa deformata, totalmente sregolata, in parte corrotta, come visto attraverso uno specchio magico.
Uscito venti anni dopo la conclusione degli eventi raccontati da Chazelle, ma ambientato proprio in quegli anni, Cantando sotto la pioggia racconta attraverso la forma del musical romantico la storia di un attore specializzato in pantomime che si reinventa per adattarsi ai tempi che cambiano.
Non esattamente la parabola che si vede dentro Babylon, dove il mutamento tecnologico scatena eventi che tirano fuori il peggio da ciascun personaggio, e anche quelli che inizialmente sembrano trarne qualche vantaggio, vengono messi alla prova dalle dinamiche di un mercato spietato.
La Hollywood del muto era un mondo frenetico, euforico, licenzioso, abitato da sognatori e canaglie, foraggiate da un pubblico ancora in formazione, pronto a spendere e a divertirsi. L’introduzione del sonoro porta un senso in più, che non impatta solo sulle potenzialità del racconto, ma arriva a toccare le coscienze. I dialoghi si liberano dalle didascalie e si arricchiscono di toni, umori, sospiri. L’allargamento del pubblico porta al contatto con sensibilità diverse che si interrogano sull’opportunità di regolamentare un ambiente tanto sfrenato. Anticipando la politica, i produttori stabiliscono e instaurano il Codice Hays, un elenco di regole e vincoli che addomesticano sceneggiature e attori per garantirsi di sedere sempre dalla parte giusta del mondo. Da un certo punto di vista si può dire che l’audio e la censura siano andati di pari passo.
Nel giro di pochi anni si è passati dal girare su sei set contemporaneamente a metterci sette o otto ciack per una scena di quattro secondi. Allo stesso modo, le star adorate fino al giorno prima per la loro vitalità ed esuberanza, cominciano a essere guardate dall’alto in basso e giudicate in attesa della prima crepa.
Il film esprime una condanna morale su questa rivoluzione, e mentre lo fa non risparmia ulteriori provocazioni, violando tabù capaci al giorno d’oggi di paralizzare ogni produzione: battute sugli ebrei, la parola con la enne, e addirittura – scandalum scandalorum – una blackface.
Eppure, dopo tutta la condanna, le oscenità, la gente schifosa e i crimini peggiori, Chazelle chiude con un’epifania che supera l’assoluzione per arrivare all’accettazione totale della funzione del Cinema come medium universale, capace di raggiungere con le sue visioni davvero tutti, dalle classi popolari agli estremisti più radicali, e di farlo in maniera più efficace e profonda di quanto possano fare la letteratura, la pittura, o forse (ma non credo), la musica.
Questo è quello che c’è dentro a Babylon, o almeno è quello mi piace vederci, nonostante le furberie e le ruffianate giustamente messe in evidenza dalle tante critiche che lo hanno crivellato.
Ma anche a certe critiche vanno fatte delle critiche, perché se per esempio le questioni sulla fedeltà storica o la coerenza di certi passaggi arrivano da giornali e canali che per anni si sono fatti andare bene qualsiasi aggressione alla logica e al buon senso, allora queste critiche si possono anche mettere un attimo in scarto e andare avanti. Anche perché, al di là delle dichiarazioni in cui si vanta delle ricerche svolte, Damien Chazelle non è quasi mai esplicito sulle figure storiche che utilizza, ma anzi modella personaggi che sono sintesi e trasfigurazioni di quelli reali*. In questo modo si prende il giusto margine di libertà, e condensa i tanti aneddoti del libro di Anger in poche figure, accrescendone l’intensità, supplendo così anche alla mancanza di un vero spessore.
Non credo sia un caso, infatti, che con tutti i suoi difetti e le sue falle, malgrado una campagna di critiche negative ad alzo zero, questo sia di gran lunga il film che fa più parlare di sé negli ultimi mesi, e forse anni. Pur trattando sempre di cinema, infatti, a differenza dei tanti titoli autoreferenziali usciti in questi tempi, Babylon offre una quota di spettacolo, di entusiasmo e di furore, difficilmente dimenticabile.
* per un breve elenco dei riferimenti ai personaggi del film: https://www.popsugar.co.uk/entertainment/babylon-true-story-49048731?utm_medium=redirect&utm_campaign=US:IT&utm_source=www.google.com