DON’T LOOK UP

regia: Adam McKay
produzione: USA, 2021 – 145’
visto: Netflix

Ho un pregiudizio verso Adam McKay? Forse sì, mi sa.
Sarà il nome da patatine, sarà che Vice mi è sembrato un film così cafone, ma anche questa volta ho iniziato la visione con le difese già belle alte e il radar in impaziente attesa di sciatterie.
Nonostante alcune trovate genialoidi, devo dire che nell’insieme ho raccolto per i miei dubbi più conferme che smentite. La sfiducia era ben riposta, insomma.
Don’t Look Up ha un unico grande pregio, quello di uscire dall’orbita (ha ha ha! Scusate…) di chi per il cinema ha la passione o almeno l’abitudine, e di colpire l’immaginario di tutta quell’altra sterminata platea di spettatori occasionali attirati dal grande evento e dalla grancassa che riesce a generare.
È nato infatti tutto un gran dibattito su questa satira che immagina come il governo e la società statunitense accolgano la notizia di un gigantesco asteroide in sicura rotta di collisione con la Terra, e del modo in cui le loro azioni e inazioni condannino tutto il pianeta.
Come in quei giochi linguistici, in cui in un testo si prova a sostituire la parola chiave con un’altra per vedere l’effetto che fa, così Adam McKay, anche produttore e sceneggiatore, immagina di adattare l’atteggiamento verso il cambiamento climatico a un evento apocalittico immane.
Le frizioni tra allarmisti e negazionisti, le divisioni fra gli esperti, il frastuono dei social, le dinamiche dell’informazione, tutta la catena di cause e effetti che si riverbera sulla politica, vengono traslate da un pericolo spesso minimizzato, poiché proiettato nel futuro e parcellizzato in tanti eventi diversamente devastanti, e messe alla prova con una minaccia ben più evidente, immediata e tangibile.
Il film era già sulla carta dal 2018, e che la sua attenzione fosse inizialmente sull’antropocene lo dice lo stesso regista nelle tante interviste, così come si capisce bene dagli inserti stile National Geographic che lampeggiano durante il film, tuttavia in molti hanno voluto estendere questo simbolismo al più recente cataclisma che ha sconvolto la vita di tutti negli ultimi due anni.
Si è scoperto che anche in questo modo il gioco funziona lo stesso, anzi meglio, perché le divisioni e la schizofrenia generate dalla pandemia virale hanno reso gli assunti del regista ancora più evidenti, si dice addirittura che la troupe sia stata richiamata per aggiungere sequenze ancora più esagerate perché nel frattempo la realtà era scappata in avanti seminando il girato.
Certa stampa politicamente orientata ha apprezzato l’idea e ha accolto benissimo il film, nascondendo nella pancia delle recensioni gli strali per quei cattivoni dei conservatori e delle grandi compagnie tecnologiche, che abusano dei loro privilegi in faccia al resto del mondo.
Queste figure si reincarnano nella Sig.ra Presidente di Meryl Streep, che simula una versione femminile di Donald Trump, con tanto di figlio/genero Jared Kushner interpretato da Jonah Hill, e dal guru anti tristezza di Mark Rylance, sinistro avatar di qualcosa tra Steve Jobs e Jeff Bezos.
La squadra dei cattivi è affiancata dai collaborazionisti dei mass media, nella versione di Cate Blanchett (ma come diavolo fa a essere sempre così perfetta?) e Tyler Perry, apparentemente neutrali e disposti a lasciar voce a chiunque, purché in esclusiva e cinica funzione della risposta del pubblico.
Dalla parte dei buoni invece giocano Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence, scienziati illuminati, responsabili e affaticati, maltrattati come impiegati qualsiasi mentre, divorati dall’ansia, si sgolano vanamente per farsi ascoltare.
Il cast in realtà è sterminato, degno di Wes Anderson, c’è anche Chalamet infatti (e figurarsi), perché come nei precedenti lavori, ci si avvantaggia degli agganci coltivati negli anni in cui l’autore scriveva gli sketch del Saturday Night Live Show.
Don’t Look Up è un diluvio universale di talenti e di mezzi produttivi spesi per dire quanto la società del benessere sia cieca, folle e assolutamente incapace di prendersi le sue responsabilità.
Se prendete una qualsiasi puntata di The Newsroom potrete trovare lo stesso tipo di messaggio, magari con anche un pelo più di retorica, ma all’interno di una confezione sontuosa che non sbaglia mai una virgola.
Nel caso di McKay invece, come abbiamo detto, la lettura frettolosa ha fatto la gioia della stampa progressista, che in virtù del suo sostegno al Partito Socialista e all’ala più radicale del Partito Democratico, gli perdona ogni faciloneria, ogni presunzione, ogni difetto prospettico o megalomania.
Secondo questa vulgata non si può criticare il film perché il messaggio che porta è così fondamentale e così urgente che se si discute il mezzo si osteggia anche il contenuto.
Così si sorvola su caratterizzazioni dozzinali, sceneggiature forzate, una regia invadente e supponente e interviste dove sentenzia come fosse Noam Chomsky o Savonarola, senza però discutere su come questa bruciante coscienza politica e ambientalista possa sposarsi con lo spendere 75 milioni di dollari in un pomposo biglietto di vaffanculo invece di, che so, raccoglierne magari anche meno ma spenderli per qualcosa di più utile e pratico.
Ma al di là di questa che può essere una polemica miope e beghina, il vizio sostanziale del film è che soffre dello stesso eterno peccato originale del cinema “americano”: pensare che il Mondo e la Storia comincino e finiscano con gli Stati Uniti D’America.
Un asteroide grande come l’Everest minaccia il pianeta, ma è una ricercatrice americana a scoprirlo, è il governo americano a gestire l’evento, sono i media americani a diffondere la notizia, è l’esercito americano a mettere in pista una fallimentare soluzione.
Il pericolo incombe su tutto il mondo ma, a parte una confusa carrellata di piazze e chiese, le immagini di un orso polare, due ippopotami e un colibrì, a tutto questo resto del mondo la parola non viene mai data.
Quello che il meteorite minaccia non è il pianeta ma lo stile di vita consumista, l’unico a quanto pare che McKay conosca, visto che non gli viene mai in mente anche solo di menzionare un punto di vista differente.
Mi spiego, non è che voglia prendere troppo sul serio il contenuto di una satira grottesca, quello che voglio criticare è che questa operazione che nelle intenzioni degli autori vorrebbe essere così universale, intelligente e acuta, si risolve in una parodia chiusa in sé stessa, afasica, che ogni tanto può far alzare un sopracciglio davanti a trovate particolarmente azzeccate, ma che in fondo non fa nemmeno mai ridere.
Voglio dire, a chi parla questo film? L’opinione che mi sto facendo è che McKay consideri il suo pubblico come persone in attesa di essere educate. Da lui.
Questa presunzione può essere forse nata fraintendendo il successo de La Grande Scommessa, il film sulla crisi dei mutui subprime, pieno di spiegoni e di bravi attori su cui il regista si è costruito un buon credito anche fuori dagli USA.
Ma se in quel caso l’argomento oggettivamente ostico giustificava il tono didascalico e la posa da maestrino, non è così per Vice e men che meno può esserlo per Don’t Look Up, dove l’impressione da spettatore è sempre quella di essere preso per un povero scemo che non capisce.
Eppure, a giudicare dal clamore, con Don’t Look Up ha raggiunto coscienze di ogni orientamento e di ogni livello, arrivando dove molti film vorrebbero ma non riescono.
Adam McKay voleva crossare e invece ha fatto gol.
In tribuna vip e nei distinti esplode la festa, ma nello stesso momento, in curva, gli ultras si scambiano sorrisetti tirati e poco convinti.

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