Regia: Wes Anderson
Produzione: USA, 2021 – 108’
visto: Lumière + Rialto
C’è tanta di quella roba nell’ultimo film di Wes Anderson, che non bastano due occhi e non bastano due orecchie. Ce ne vorrebbero almeno quattro per vederla e sentirla tutta, oppure, per non perdere il segno, può essere utile vederlo più volte.
La critica, per dire, sembra piuttosto tiepida: si parla di autoreferenzialità, di virtuosismo fine a se stesso, di un eccesso di perizia che raffredda il tono generale, di meccanismi sterili e di un giochino che ha stufato.
Eppure sfido a togliersi dalla testa i personaggi che ancora una volta Anderson ci regala. Provate a dimenticarvi Léa Seydoux, con o senza quella divisa, o il personaggio di Jeffrey Wright, fragile e sensibile prodigio di memoria tipografica, o il forzuto, il cronista sgranocchiatore, il tenente Nescaffier, la francesina con l’elmetto.
Per non parlare dei soliti noti che indossano i loro abiti più comodi: il direttore di Bill Murray, laconico e protettivo, il cronista di Luke Wilson, selvatico e sbadato come un gatto, l’istrionica esperta di artisti Tilda Swinton, sempre giganteggiante.
È vero, The French Dispatch è un’esperienza debordante, dove ogni peculiarità dello stile di Wes Anderson fa un ulteriore passo verso la costruzione di un mondo conforme alla visione del suo Autore.
Per trovare un filo che ci guidi è il caso di cominciare dalla fine, dai meravigliosi titoli di coda che si aprono con una dedica e una galleria di copertine fittizie, e chiariscono definitivamente l’omaggio alla gloriosa eredità del celeberrimo The New Yorker.
Per chi non lo sapesse, il New Yorker è una rivista americana di attualità e costume, famosa per le copertine iconiche e lo stile intellettuale e cosmopolita dei suoi articoli.
La voce fuori campo lo dice all’inizio: gli articoli del French Dispatch hanno portato fin nell cuore dell’America un mondo di esotiche eccentricità a chi mai le avrebbe nemmeno immaginate. Tra di loro, in quel cuore rurale, stava anche il regista, che da bambino si perdeva affascinato nei racconti di cantori che l’enfasi e la fantasia tramutavano in figure mitiche.
Oggi Wes Anderson ha cinquant’anni e vive a Parigi, e insieme alle suggestioni infantili vuole celebrare anche l’immaginario della cultura francese.
Il film è pensato come una rivista, con un sommario, quattro articoli principali, una sezione animata che richiama le strip e una chiusura riservata ai ringraziamenti, alle dediche e al commiato della redazione dal suo pubblico.
Ognuno degli articoli ha una sua forma e una sua tecnica, ma tutti rispondono anche a criteri comuni, come si deve alla redazione di un giornale.
Il tema che lega tutto è l’ambientazione: si parte con un veloce (in tutti i sensi) reportage su Ennui-sur-Blasé, fantomatico borghetto francese che racchiude come una cartolina i cliché più diffusi e divertenti, segue la rubrica sull’arte, con la storia tragicomica del pittore maudit e della sua musa. C’è poi l’approfondimento sulla politica, con la navigata corrispondente che racconta in presa diretta le rivolte del Maggio ’68 grazie alla relazione col giovane rivoluzionario Zeffirelli, in ultimo non poteva mancare la grande gastronomia, così essenziale da diventare vera e propria dotazione e arma letale nell’avventuroso caso di un rapimento che a sua volta guarda ai topoi del genere poliziesco.
L’inquadratura frontale propria del regista è stavolta anche lo sguardo goloso del lettore su un mondo che si squaderna in forma di libro pop-up, il ricorso al tableau vivant riporta alle fotografie in doppia pagina, per ogni episodio c’è una frase che viene sottolineata e che concentra la potenza del racconto, proprio come un corsivo giornalistico.
La vicenda di ogni articolo è narrata perlopiù da un bianco&nero sempre diverso, interrotto saltuariamente e per esigenze sceniche da inserti di colore: al contrario gli autori degli stessi articoli sono ripresi a colori, raramente compaiono in bianco e nero al di fuori della storia che raccontano, anzi, sembra piuttosto che a ognuno sia attribuito un proprio colore.
Per Hersaint Sazerac prevale il blu, J.K.L. Berensen è immersa in uno scenario totalmente arancio, Lucinda Krementz indossa sempre un cappotto rosso, per Roebuck Wright, anche se non si riesce a determinare un solo colore, il pavimento e il drappeggio delle quinte di uno studio televisivo disegnano inseguimenti di toni naturali, terre e verdi.
Il mondo del direttore Arthur Howitzer Jr. è un mondo giallino, ottimista, bonario, tranquillizzante. Nell’ultima inquadratura, alla sua morte, la camera si allarga e mostra una cornice verde acido, un cambio di tono che significa la fine di quell’epoca e di quel mondo tanto amato.
Come dice egli stesso nellle sue ultime volontà: alla mia morte la rivista sarà chiusa, i collaboratori pagati e le rotative liquefatte.
C’è dunque alla base una struttura estremamente stratificata, gli elementi sono tanti, e tra quelli invisibili e quelli più evidenti, Anderson infila anche decine di citazioni e giochi di parole a godimento dei cercatori più accaniti.
La complessità dunque c’è, ma la maestria del regista e del suo team, e le prove del generoso cast all-star, garantiscono l’esperienza di vedere anche stavolta qualcosa fuori dal comune.
Soprattutto non si perde mai di vista il tono comico di tutta l’operazione.
La Francia di Anderson è per forza di cose finta e comica: Ennui-sur-Blasé è una caricatura come lo sono le reincarnazioni dei veri giornalisti e tutti gli avvenimenti e gli aspetti che il film coglie e deforma con un leggero scarto che li rende mitici.
Il Maggio del ’68 diventa il Marzo del ’68, i gatti sui tetti diventano legioni, l’haute cuisine arriva in tutte le professioni, gli artisti maudit sono squinternati assassini che respirano solo per muse pazzesche.
Insieme al divertimento però Wes Anderson ci tiene a fare passare un certo messaggio che parla di arte, talento e rispetto per se stessi.
Tutti i pezzi parlano infatti di artisti, o giornalisti, o scrittori, che perseguono il loro sogno e cercano di mantenere l’integrità in un mondo che cerca di minarne le convinzioni.
Sazerac non rinuncia a parlare dei derelitti, delle puttane e dei delinquenti, il pittore Moses Rosenthaler è spinto continuamente a produrre dipinti che lui ancora non sente, Zeffirelli sceglie di diventare un martire per la sua causa, e Roebuck Wright è un gay nero che a un certo punto vediamo pure in prigione e che per orgoglio e dignità vorrebbe tacere la toccante confessione del cuoco Nescaffier.
Lo stesso direttore Howitzer quando si trova in difficoltà nella composizione e nell’impaginazione del numero, trova comunque il modo di non sacrificare nessuno dei suoi prediletti.
Quindi sì, ce n’è davvero tanta di roba dentro questo film.
È questo un male oppure un bene?
Non sperate che ve lo dica io.
Forse dovrei trivederlo.