
Regia: Michelangelo Frammartino
Produzione: Italia, Germania, Francia, 2021 – 93’’
visto: Sala Cervi
Uno dei film più particolari della stagione, un’immersione nella roccia che per funzionare al meglio vorrebbe in sala il buio completo, cosa che purtroppo, per via delle lampade di sicurezza, degli smartphone e di altre fonti di disturbo, non si riesce più ad avere.
I titoli di riferimento, per chi volesse farsi un’idea in anticipo, sono “Le Quattro Volte”, precedente firma del 2012 dello stesso regista, e “Cave of forgotten dreams” capolavoro del 2010 di Werner Herzog impreziosito dalle riprese in 3D.
Da “Le Quattro volte”, una storia circolare che tocca le 4 forme della Natura, si possono trarre l’ambientazione di una Calabria rurale sospesa in un tempo ostinatamente arcaico e i ritmi rarefatti.
Dal documentario di Herzog invece si può desumere giusto l’argomento, cioè il disvelamento allo sguardo dell’Uomo di una serie di grotte nascoste per millenni.
Volendo riepilogare in modo molto banale, “Il Buco” racconta la spedizione del Gruppo Speleologico Piemontese che nel 1961 esplorò l’abisso del Bifurto, dentro i monti calabri del Parco del Pollino.
Michelangelo Frammartino però non racconta questa storia in modo tradizionale, con dei personaggi che spiegano la grandezza dell’impresa e sottolineature varie, ma si affida ai più espressivi mezzi che il Cinema mette a disposizione: l’immagine e il suono.
Per buona parte del film sembra di vedere quei dipinti a olio del ‘600: dei panorami vastissimi con una natura gigantesca e gli uomini ridotti a poco più che macchioline di colore sullo sfondo.
Il ruolo dell’Umanità, seppure centrale nel discorso, viene ridimensionato dal regista rapportandolo alla potenza e alle energie immanenti nella Natura.
L’Uomo può aver scoperto la fossa del Bifurto solo nel 1961, ma la fossa è stata lì da sempre.
I monti del Pollino guardano la valle da ben prima che la prima capanna fosse montata.
Lo sguardo che Frammartino indossa è lo sguardo della Natura stessa, le cose si vedono succedere per come avvengono, il convoglio degli esploratori risale il monte dalla stazione, che sta sul litorale, e si arrampica fino al borgo dove appoggiano le attrezzature. La vita è colta dall’alto, come nella magistrale sequenza che comincia nel retro della chiesa, per affacciarsi sulla messa in latino col prete che da le spalle ai fedeli, e che dice senza una parola che siamo prima del Concilio Vaticano II.
Il film segue questa regola, i dialoghi sono rumori che restano sullo sfondo e l’immagine ruba alla parola il doppio valore di significato e di significante: l’apertura col servizio d’archivio dedicato al Pirellone serve a contestualizzare il momento storico, a sottolineare la distanza tra il boom economico del Nord e la pigra inerzia della Calabria, ma la torre di cemento che si drizza verso il cielo, costruisce con la voragine vulvica e le sue umide pareti una simbologia primordiale che riprende il discorso sulle eterne leggi naturali. Può essere che quest’ultima lettura suoni un po’ azzardata, ma a renderne lecito almeno il sospetto è una delle poche sequenze parlate, in cui gli speleologi intorno al fuoco intonano la canzone dello “spazzacamino”, un coro da osteria che guarda caso parla proprio di un “buco” e le cui tipiche allusioni sono chiarissime. Non vorrei passare per eretico, ma in nessuna delle recensioni che mi è capitato di leggere ho trovato un accenno alla sottile vena ironica che ogni tanto affiora anche nell’atmosfera generalmente soporifera del film.
Per il resto è tutto piuttosto spartano, mancano personaggi con cui immedesimarsi, allo spettatore è richiesto di abbandonarsi alle suggestioni, e più che gli attori, l’invito è a seguire il regista, immaginandosi la fatica e il puntiglio con cui realizza inquadrature al limite del possibile.
Se si riesce a fare questo, se gli stimoli esterni non interferiscono nella visione, allora si può cascare dentro il meccanismo, e vivere quell’esperienza di tipo immersivo ricercata dal regista e dalla sua squadra.
In realtà, a tutta la parte sulla discesa nella fossa, sullo stupore di un paesello che si raccoglie la sera davanti a una piccola tv portata in piazza, fa da controcanto la sorte di un vecchio pastore, apparentemente sconnessa dalla vicenda principale, che dovrebbe chiaramente avere una funzione simbolica, ma il cui significato non è del tutto chiaro. La sua figura è l’unica tra quelle umane alla quale è dato avvicinarsi, probabilmente il suo ruolo è raccogliere un minimo di empatia per facilitare la visione al pubblico meno allenato all’assenza dei classici personaggi.
Tuttavia, forse per distrazione, non saprei, l’impressione che mi sono fatto è che tutta quella parte sia in fondo sacrificabile, poiché ribadisce in altra forma concetti già espressi e, rispetto alla confezione generale, lo fa con una metafora non proprio brillantissima.
“Il Buco” è un film particolare, coinvolgente, che va visto con curiosità e senza il pregiudizio di affrontare una visione pesante.
Speriamo di non aspettare altri dieci anni per vedere un nuovo film di Michelangelo Frammartino.