SULLA INFINITEZZA

Regia: Roy Andersson
Produzione: Svezia, 2019 – 76’
visto su: Cinema Orione

Se uno va a vedere questo film senza aver visto nessuno dei precedenti lavori di Roy Andersson ci rimane male.
Se invece è al corrente della sua poetica, e magari ha visto il precedente Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014), si troverà davanti a un nuovo capitolo di questa sua ventennale saga surreale.
Una voce femminile introduce una serie di inquadrature fisse dove fantasmatici personaggi vivono brevi sketch in ambienti quotidiani resi lunari dalla fissità dello sguardo di macchina e dai colori esangui e pallidi come i loro volti imbiancati dal cerone.
Il tema ricorrente dei vari quadretti che si susseguono è quello del lutto e della sua elaborazione da parte di chi resta. A parte quelli più evidenti, come i genitori che piangono sulla tomba del figlio o l’esecuzione di un condannato, le uniche tracce narrative che tornano sono legate a un signore rancoroso e a un prete che ha perso la fede e non sa cosa fare dopo che la sua vena si è esaurita.
Anche la bellissima sequenza scelta sia per il prologo che per la locandina, e che tra l’altro contiene l’unico movimento di macchina del film, ha a che fare con il senso del “dopo”. Due amanti che ricordano i dipinti fantastici di Marc Chagall, si librano in volo sulle rovine di una città rasa al suolo da un bombardamento. Questa città che alcuni riconoscono in Colonia, ma che può ricordare tranquillamente Dresda, non sembra molto diversa dalla stessa città sorvolata dallo stormo di bombardieri che chiude il precedente film del 2007 You, the Living.
Non mancano i soliti riferimenti all’eredità nazista del nord Europa, sempre velenosamente ricordata dal regista e qualche avvilente rapporto sentimentale.
Roy Andersson insomma insiste nel suo discorso apportando modifiche minime al suo linguaggio. Ad esempio in questo ultimo capitolo, dalla sua già ristretta palette di pastelli, toglie quasi del tutto i gialli, che quando va bene virano in delle terre spente, rinunciando così a qualsiasi tonalità che possa riscaldare o illuminare lo spettacolo ridicolo e crudele dei suoi fantasmini vestiti male. A parte pochissime eccezioni, i toni che restano sono quelli cinerei dei blu e dei viola che sfumano nel grigio di un sole pallidissimo e timido privo di ogni forza.
Fin dall’anno 2000, con Canzoni del secondo piano, il settantottenne regista svedese propone a cadenza di circa sei o sette anni nuove riflessioni sulla società europea di inizio millennio girando con uno stile caratteristico e inconfondibile. Nei primi tre film la staticità della messa in scena – se non sbaglio si contano tre soli movimenti di macchina nei finora quattro film: due in You, The Living (2007) e uno in Sulla Infinitezza – era in qualche modo contrastata da una vena narrativa e da un umorismo glaciale che attraversava le scene, a volte facendole confluire le une nelle altre, a volte riprendendo personaggi le cui vicende si evolvevano.
In questo ultimo capitolo però questa trama si disfa quasi completamente, e il rapporto di consequenzialità si limita a toccare debolmente solo alcuni dei frammenti selezionati.
I temi trattati e l’assottigliamento della consueta cinica ironia, gravano sul tono generale che si fa più lugubre, e la mancanza della componente narrativa lascia lo spettatore un po’ più solo davanti a immagini che rispetto al passato si fanno più spoglie e se possibile ancor meno vivaci. Il risultato finale rafforza più che mai l’effetto pittorico dei tableaux vivants di Andersson rendendo la visione innanzitutto contemplativa.
In mezzo a tutta questa contemplazione però non è semplice rintracciare il filo del discorso, a meno di non tenere ben presente i titoli e le tematiche degli episodi precedenti. Se Canzoni del secondo piano (2000) parlava fondamentalmente di un’Europa sconcertata, alla ricerca di un senso nel trascendente dopo essere rimasta orfana del Muro di Berlino e della Guerra Fredda, You, the Living (2007) esortava a trovare questo senso nelle proprie giornate, soffermandosi su situazioni paradossali che svuotavano le vite insensate dei pover fantasmi Anderssoniani. Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza è uscito nel 2014, e sembrava allora mettere un punto a questo excursus filosofico: si apriva infatti con tre esempi di morte, per poi seguitare raccontando i soliti disgraziati personaggi alle prese con diversi aspetti della società che si sono in qualche modo stabilizzati e hanno sostituito il paradigma ideologico precedente solo per tornare a imprigionarli in un nuovo circolo di avidità e profitto e infinite guerre e sopraffazioni.
Oggi, più che di ciò che non finisce, Sulla Infinitezza sembra voler parlare di ciò che rimane quando tutto finisce. Un concetto che il regista formalizza attraverso il dialogo di due giovani che preparano un esame:
“Il primo principio della termodinamica dice che tutto è energia, e questa non può essere distrutta, l’energia è infinita. Può solo convertirsi in qualche nuova forma.
Quindi questo significa che tu sei energia, io sono energia, e che la tua energia e la mia energia non possono scomparire. Possono solo diventare qualcos’altro.
Quindi in teoria è possibile che le nostre energie si incontrino nuovamente tra qualche milione di anni, e forse allora tu sarai diventata una patata.
O un pomodoro.“

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