CHINATOWN

Regia: Roman Polanski
Produzione: USA, 1974 – 130’
visto su: Amazon Prime Video

Sempre segnalato tra i titoli imprescindibili della New Hollywood, in settimana ho finalmente recuperato questa mancanza grazie al magnifico restauro del 2014.
Chinatown esce nel 1974, e riporta Polanski a Los Angeles cinque anni dopo l’infame omicidio della moglie Sharon Tate. Oltre a essere una nota di cronaca, questo getta unanimemente un’ombra di tragedia su qualsiasi lettura di un film che ha il suo fascino nella rete di sottotesti cavernosi nascosti da un’ambientazione quanto mai classica.
I titoli di testa riportano subito al cinema degli anni ’30, i frequenti ritratti del presidente Roosevelt e un quotidiano sfogliato dal protagonista inquadrano la storia a Los Angeles, nel 1937.
Jake Gittes è un investigatore privato elegante e abile che si mantiene piuttosto bene grazie a una città che di cose da nascondere ne ha tante. Il suo ultimo incarico lo porta a compromettere la posizione di Hollis Mulwray, ingegnere a capo della rete idrica cittadina. In breve tempo gli eventi precipitano, e una semplice pratica di infedeltà porta a galla omicidi, pestaggi, inseguimenti e un’enorme truffa schermata da una perversa serie di scatole cinesi.
Quando Gittes realizza di essersi immischiato in un pericolo più grande di lui è ormai troppo tardi per sottrarsi, la cosa è diventata un fatto personale. Oltre al carattere, a spingerlo è la relazione che instaura con Evelyn, la moglie di Mulwray, donna affascinante e misteriosa che lo attira da subito.
Gli anni ’30, un detective privato, una femme fatale e una città piena di soldi e di segreti: tutti gli elementi classici del noir, fino a qui niente di nuovo.
Ma il Jake Gittes di Jack Nicholson, qui in una delle prove che ne hanno formato la leggenda, non è un personaggio “tipico”. È raffinato ma sboccato, seducente ma sentimentale, sbaglia ma non è un fallito, e nonostante un ottimo intuito, certe cose non riesce ad afferrarle al volo, e infatti gli sviluppi lo travolgono in modo del tutto inatteso.
Ancora più insolita è la Evelyn Mulwray di Faye Dunaway, che più di tutti si carica del peso di una vicenda torbida e dello scarto dalle figure schematiche del cinema narrativo.
Evelyn fa poche cose e ne dice molte.
Quante di queste sono vere, e quante sono false?
Non c’è verità se non quella di un colpo di pistola.
Dentro a Chinatown tutto è allusione, ricordo, rimpianto. Lo stesso titolo non è che un rimando all’interno della storia: è il passato da cui Gittes è venuto via, un luogo di cui tutti sanno ma da cui vogliono stare alla larga.
Si diceva di quanto sia inevitabile collegare la regia al dramma privato (ma anche pubblico) della famiglia Polanski.
È noto il contrasto artistico tra il regista e lo sceneggiatore Robert Towne, con questi più propenso a un soggetto molto più articolato e confortante, e il primo tenacemente determinato ad asciugare lo script e a leggerlo con lo sguardo indurito dei Seventies.
Lo sguardo di una comunità strappata alle illusioni dagli scandali interni e dal consumarsi del Vietnam, una serie di pesanti veli che cadono drammaticamente e costringono a guardarsi in faccia e riconoscersi in quella parte oscura e sbagliata da sempre rinnegata.
Uno sguardo condiviso a maggior ragione da Polanski, che vive l’omicidio della moglie e del figlio, trafitti sedici volte dai coltelli dei seguaci di Charles Manson, carnefici degli anni ’60 e di tutto il Flower Power.
Chinatown racconta una tipica indagine poliziesca con tutti gli stigmi del caso, ma il contesto è quello delle guerre dell’acqua, il peccato originario della prosperosa Los Angeles, il momento in cui gli speculatori strangolano i contadini della valle per il privilegio della città.
Il senso di ingiustizia è la cifra di un film che concentra il suo peso specifico in un finale che sublima ogni significato: il titolo, i personaggi, le storie i sentimenti e le aspettative.
Sforzandosi (molto) di chiudere fuori dalla porta i giudizi morali sul Roman Polanski stupratore (il crimine avverrà tre anni dopo), possiamo vedere negli occhi del regista una denuncia tenace, una voglia crudele di smantellare il mito di Hollywood: nello scegliere John Huston come mostro, nel macellare la sua eroina vittima di un ambiente predatore e crudele.
Cos’è Chinatown se non un diamante formato dalla compressione di materiali sotterranei, fangosi, nascosti, che stretti dal dolore e dall’amarezza risplendono proprio di quel dolore e di quell’amarezza?
Cos’è Chinatown se non l’urlo di un uomo (e di un popolo) distrutto che incassa ma non molla?
Così è, Chinatown.

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