
Regia: Gianfranco Rosi
Produzione: Italia, 2020 – 100’
15 Settembre 2020
Notturno è un documentario quasi muto girato durante tre anni di ricerca nelle zone più instabili del Medio Oriente.
Appena presentato al Festival di Venezia, il film si è attirato recensioni contraddittorie: è stato elogiato da molti per la potenza delle immagini e dei temi trattati, ma tanti altri hanno trovato al limite della superficialità la scelta di non diversificare e specificare meglio i luoghi e le storie che racconta.
Nella critica ricorre l’espressione di un Medio Oriente “immaginario”, o “generico”, che il film attraversa sorvolando sulle particolarità locali e etniche.
Ora io non so se a Venezia abbiano proiettato la stessa versione distribuita in sala dal giorno dopo, ma quest’ultima si apre con un paio di cartelli che mi sembra spieghino molto bene il punto di vista del regista e il motivo per cui tenda ad accomunare i destini dei suoi personaggi.
Gianfranco Rosi fa partire il tutto dalla caduta dell’Impero Ottomano alla fine della Grande Guerra e dagli effetti di una colonizzazione eurocentrica che ha sempre badato più alla salvaguardia degli interessi britannici e francesi che a lenire il malcontento delle popolazioni amministrate.
L’area presa in esame è composta dai territori di Libano, Siria, Iraq e del Kurdistan.
Se si prende in mano una cartina si vede subito a occhio come questa vasta zona sia compressa a ovest dall’Arabia più ricca, e a est dall’Iran. Tra queste due aree più o meno stabilizzate si consuma l’eredità del famigerato accordo Sykes-Picot, i cui confini arbitrari vengono espressamente rinnegati da Rosi, che con la scelta di muoversi proprio su quelle linee, le calpesta e le scavalca, con l’effetto di sfumarle e dimostrarne ancora una volta l’artificiosità.
Chiarito questo approccio si può comunque convenire sul fatto che dal punto di vista emotivo il film non risulti del tutto completo come i precedenti. Pur trattando temi incandescenti e drammatici, infatti, al termine della proiezione non sembra ad esempio lasciare un senso di sorpresa quasi antropologica come Sacro GRA, e nemmeno lo scandalo e la rabbia di Fuocoammare.
Quella che resta invece è la forza di certe immagini: un cavallo bianco illuminato dai fari delle auto, un deserto allagato, l’ora d’aria dei miliziani Daesh fatti prigionieri, che ricorda tanto “l’uscita dalle officine Lumière” del 1895.
La prevalenza del carattere estetizzante è evidente, come la studiata costruzione proposta.
In campo musicale un notturno è una sinfonia pensata per un’esecuzione serale, che non di rado si apre con una breve marcia, ma che poi si compone di brani diversi dall’andamento contemplativo.
Tutti elementi che trovano una precisa corrispondenza nella struttura di questo film, che infatti comincia con una sequenza di soldati che a ondate attraversano l’inquadratura a passo di marcia, e che in seguito presenta almeno quattro storie fra loro indipendenti: la recita di uno spettacolo in un ospedale psichiatrico di Baghdad, le sessioni di terapia di bambini superstiti del massacro degli Yazidi in Siria, le giornate del giovane Alì, che si presta come cane da riporto a giornata e ogni tanto caccia e cucina quelli che sembrano essere topi di campo, e quelle delle soldatesse Peshmerga, tra silenzi tesi e momenti camerateschi nelle alture del Kurdistan.
Gli spazi di queste quattro trame che si alternano sono riempiti da altre micro storie e micro ritratti che si soffermano sulle difficoltà e i pericoli spesso mortali che minacciano gli ospiti della terra di nessuno.
Non mancano mai in sottofondo le esplosioni, i colpi di mortaio, le mitragliate; l’esistenza è qualcosa di molto precario e la violenza una presenza costante.
Nonostante ciò, la forma che Rosi sceglie per la sua antologia tende a congelare il pathos in una stasi, che forse vuole riflettere l’annosa impossibilità di uscire da una spirale di miseria e di caos, malgrado l’avvicendarsi schizofrenico di tante dominazioni.
Sullo schermo scorre una successione di inquadrature in camera fissa, spesso in campo lungo, dentro cui i personaggi si muovono come su un palcoscenico, allusione ribadita dall’accento usato nelle riprese della recita teatrale, che rende con forza l’ammattimento inflitto da una condizione opprimente.
Le immagini sono, come da attese, di una qualità squisita, maestosa, delle quinte panoramiche sontuose che giocano tra i confini e l’orizzonte, dove le tenebre sono ostinatamente contese dalle luci artificiali, simbolo di un’attività umana irriducibilmente risoluta a sopravvivere.
Ogni fotogramma sembra pensato per essere esposto in una mostra, una ricchezza che ha perfino irritato alcuni critici, presi dal dubbio che nell’insieme l’attenzione formale finisca per schiacciare i contenuti, sacrificati per dare lustro a un vanitoso esercizio di stile.
Non so dire, onestamente, se il regista abbia azzeccato tutte le scelte, di certo non condivido queste accuse di malafede e trovo bizzarro che ci si possa lamentare per la troppa qualità espressa. Probabilmente una certa freddezza nel tono può dipendere da un’esposizione quasi a volo d’uccello, che propone alcune istantanee apparentemente slegate, i cui riferimenti sono in gran parte demandati allo spettatore, non concedendo dunque molto a chi non sia adeguatamente informato. Manca forse un appiglio narrativo che renda tutto più coinvolgente, più empatico, e non è scandaloso che finora non abbia raccolto particolari riconoscimenti.