
Regia: Pablo Larraín
Produzione: Cile, 2019 – 102’ –
8 Settembre 2020
Ema ha una ventina d’anni, i capelli come un elfo e un figlio di dieci. Un figlio adottato in realtà, un figlio difficile, turbolento, a cui a un certo punto ha rinunciato. Dovevano essere in due a tirarlo su ‘sto ragazzino, ma l’uomo di Ema, Gaston, si rivela ancora più problematico, e i due sembrano proprio una coppia che sta insieme con lo sputo.
Tra l’altro lavorano pure insieme, visto che Ema è una ballerina e Gaston il suo pretenzioso coreografo.
Altra cosa importante, siamo in Cile, a Valparaíso, cittadina sull’oceano dove Ema serpeggia con le sue amiche danzanti, con passo tentatore come una diabolica combriccola di streghette.
Ema non ci si trova nelle regole della sua città, nelle istituzioni, negli usi, nelle persone, nei semafori; parla poco, quasi mai, piuttosto balla ogni volta che può, e quando balla il suo corpo diventa un’antenna erotica che spara fosforo bianco ad altezza uomo, e tutto quello che tocca lo incendia di sensualità e di rivolta.
Ema lo sa benissimo che quel potere che ha è l’unico capitale di cui dispone, e si decide a spenderlo tutto appena capisce di rivolere il figlio con sé.
Apparentemente Ema, stavolta intendo il film, assomiglia un po’ a quei film che con la scusa di raccontare un personaggio femminile forte fan vedere un po’ di zozzerie, e infatti sono parecchi i fan di Pablo Larraín a esserci rimasti male per quanto questo si discosti dai suoi precedenti lavori.
Posto che non ho visto proprio tutto tutto di questo regista, mi sembra però che siamo davanti a un titolo di una certa complessità, molto potente e magnetico, e che possa comunque essere ben messo in relazione con il resto della sua filmografia.
Visivamente è molto coinvolgente, con delle scene in cui tutto, dai colori alle musiche alle riprese sinuose, non fa che ribadire e continuamente rilanciare un caldissimo tasso di sensualità.
I due simboli principali che inquadrano il carattere della protagonista sono infatti la danza e il fuoco.
Attraverso il ballo, l’enigmatica Ema entra in una sfera di sensi in cui attrae e si relaziona con tutti gli altri personaggi. Per come sono gestite, le sequenze di ballo accompagnano il crescendo della storia di Ema, della sua strategia, del suo bisogno di libertà e delle passioni che accende attorno a sé.
La tensione erotica promessa fin dall’inizio è alimentata dalle coreografie, dagli sguardi e dalle inquadrature, e monta impetuosa spazzando via tutti i ragionamenti e i discorsi razionali che provano a trattenerla, si accumula per esplodere solo alla fine in una serie di amplessi che sono anche il culmine delle manovre della ragazza.
Il fuoco, che appare in forme diverse, dalle più esplicite vampate di un lanciafiamme (che si presta pure a non troppo sottili metafore), alle ustioni sul volto di un personaggio, rappresenta sicuramente la passionalità della protagonista, la sua audacia inarrestabile, l’irruenza che ferisce, ma rappresenta anche qualcos’altro, alludendo a un discorso più ampio che trova conforto nelle interviste degli attori e del regista.
Se nel personaggio di Ema, Larraín identifica non una sola specifica ragazza, ma tutta la giovane generazione cilena, allora le danze con cui lei e il suo gruppo marciano per la città significano qualcosa di diverso che non svago e amore per il ballo, la musica che scelgono significa qualcosa di diverso, le tute dell’adidas significano qualcosa di diverso, e allora anche il fuoco che brucia le auto, i semafori, i giochi dei bambini e le statue degli eroi, diventa un fuoco che brucia un intero paese, un intero sistema.
In quest’ottica, il personaggio chiave che rende leggibile il tutto diventa quindi Gaston.
Gaston ha dodici o tredici anni in più di Ema, è troppo vecchio per essere della stessa generazione ma è anche troppo giovane per far parte di quella che ha vissuto la dittatura cilena. È una specie di baby boomer, diciamo, si è trovato la strada spianata senza dover impegnarsi granché per difenderla. (Non a caso la sua parte è affidata a Gael García Bernal, protagonista di No – i giorni dell’arcobaleno, precedente film di Larraín sul referendum del 1988 che scardinò il consenso alla giunta militare di Pinochet.)
Gaston è spocchioso, fa un sacco di discorsi articolati, razionalizza, giudica, non si prende nessuna responsabilità.
Diverse volte, in diverse circostanze lo sentiamo dire che “non è colpa sua”, addossando le colpe delle varie catastrofi alla più giovane compagna. Gaston detesta il reggaeton. Gaston è sterile.
Gaston è tutto ciò contro cui Ema lotta, è l’antagonista che la ostacola nella ricerca di un’armonia e di una stabilità che lei vede in modo diverso, nuovo.
Sotto questa luce si può intendere anche la scelta, da molti criticata, dello stile da videoclip con cui sono ripresi certi momenti, che si vede nelle intenzioni del regista appartengono a un’altra cultura, a un’altra mentalità.
Sta di fatto che il film non si chiude con il semplice esito dello sforzo della protagonista, ma si allunga in un epilogo che invita a continuare la lotta e che offre come soluzione una proposta di vita nuova, che può lasciare perplesso qualcuno ma che chissà, potrebbe pure funzionare.