Volevo Nascondermi

il

Regia: Giorgio Diritti
Produzione: Italia, 2020 – 120’
21 Agosto 2020

Avevo lasciato Giorgio Diritti nel 2012 con un giorno devi andare, un film con un gran bel titolo ma che per ambientazione e temi si discostava troppo dalle atmosfere dei suoi primi apprezzatissimi due lavori: il vento fa il suo giro e il bellissimo l’uomo che verrà.
Raccontando la storia del pittore Antonio Ligabue, Diritti torna a casa, e ritrova il centro di un cinema fatto di boschi e di pietre, dove la luce si infila a fatica tra le terre della bassa reggiana come tra i muri della svizzera calvinista, modulando tra bui caldi e bui freddi la temperatura della penombra che opprime la vitalità irruenta del suo protagonista.
La storia di Antonio Ligabue è una delle più drammatiche tra quelle degli artisti più famosi, per certi versi simile a quella di Vincent Van Gogh, entrambi caratteri tormentati e radicali, autori di una pittura dall’energia indomabile, che guarda più al regno naturale che all’alienante società loro coeva. Ligabue in particolare si orienta presto sulle crude e primitive dinamiche che regolano la vita delle bestie, riprendendo scene di caccia e di furore con colori vivaci e pennellate decise.
Su questa identificazione animalesca e sul rifiuto dell’urbanità, Giorgio Diritti costruisce il suo intenso ritratto, lasciando sullo sfondo gli elementi biografici e concentrandosi su episodi rivelatori della vita interiore del pittore. La struttura schizofrenica del racconto trascura la cronologia e mischia i passaggi da un’età all’altra per potenziare gli aspetti emotivi e allontanare le occasioni di razionalizzare (e quindi in un certo modo diluire) il disagio mentale.
Vediamo gli effetti dell’afflizione su un ragazzino difficile, cresciuto da una famiglia adottiva e che perde quella naturale in modo tragico, ma non ne conosciamo le cause: poco o nulla viene detto sui motivi dell’affido, sulle difficoltà dei suoi tutori o sui motivi che dalla Svizzera lo portano a Gualtieri. Lo conosciamo già scontroso, sostanzialmente trattato male, confinato in un’infanzia triste e sola che riaffiora negli strappi di una carriera che si sviluppa tra un ricovero e l’altro, costantemente in conflitto con una comunità che lo tollera a fatica e che cerca di contenerlo con ripetuti internamenti.
Senza una casa né un patria, senza una famiglia né una sposa, Ligabue è continuamente respinto da un mondo incapace di accoglierlo, ancora privo degli strumenti per comprenderlo, e al quale si ribella con furore.
Tuttavia non si azzarda nessuna spiegazione psicologica che faccia luce su questa condizione: più importante di scoprine i motivi è necessaria la compassione, la condivisione della tristezza, della paura, della diffidenza di un uomo verso i suoi simili, con i quali non riesce neppure a comunicare.
Giorgio Diritti ha da sempre una passione per i dialetti, con i quali affonda le sue storie in contesti fortemente caratterizzati sul piano geografico e sociale. In questo caso il dialetto reggiano e la lingua tedesca si alternano all’italiano per accrescere nello spettatore uno spaesamento in sintonia con la disposizione d’animo del suo personaggio.
L’ambientazione e la lingua prevalenti sono quelle emiliane, e in un cast affollato di volti tipici piuttosto noti nel bolognese (come Lorenzo Ansaloni, Gianni Fantoni e Duilio Pizzocchi), naturalmente a loro agio, il ruolo principale è affidato al talento smisurato di Elio Germano, per il quale ormai ogni parola è superflua. Di fatto il suo è l’unico vero personaggio del film, che trattandosi di un biopic, non può sfuggire alle regole del genere, e seppur perseguendo una costruzione ricercata, si limita a un’accorata esposizione della tragica figura del pittore senza concedere nulla a un’eventuale trama di supporto.
Il film è talmente centrato sul suo protagonista e sull’interpretazione di Germano, che diventa persino difficile distinguere tra i comprimari i classici ruoli di aiutanti e antagonisti, non esiste di fatto un vero “cattivo” che ostacola l’eroe, e sebbene la sua anormalità lo esponga spesso allo scherno e alle imboscate di qualche monello, ciò che davvero si oppone alla sua impresa, che in buona sostanza è il desiderio di essere accettato attraverso la sua arte, è l’incapacità di essere compreso, una difficoltà che attiene anche a chi gli è più vicino e a chi,  come può, gli vuole bene.
Il mondo semplice, colto con maestria nelle spettacolari immagini di un regista dichiaratamente innamorato di certi luoghi, di certe piazze e di certe campagne, resta comunque ancora troppo lontano dall’animo ululante di Antonio Ligabue, che in quei campi e in quei boschi si agita e strepita sintonizzato su tutt’altre furie, più vicine ai misteri della magia dei primitivi, ai cerchi nella neve, alla creta masticata che modella le sue belve.
Volevo Nascondermi è un film intenso, che forse non aggiunge molto al mito di Ligabue per chi già lo conosce, e che ha il suo maggior valore nella potente resa del personaggio di Elio Germano e nella poesia delle immagini di Giorgio Diritti.
Peccato forse per un audio in presa diretta a volte un po’ piatto, e per una fastidiosa mancanza di fuoco ai lati dell’immagine durante le riprese degli interni, difetto assente negli esterni e sui titoli di coda, ad esempio, dove i dipinti sono sempre completamente a fuoco. Queste piccole mancanze, unite a un vago senso di claustrofobia dato da una trama che in fondo non si sviluppa mai, limitano il risultato finale di un film molto bello ma che forse non riesce a essere davvero grande.

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