Favolacce


Regia: Fratelli D’Innocenzo
Produzione: Italia, 2020 – 98’

Tutti parlano molto bene di Favolacce, il secondo film dei gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, miglior sceneggiatura a Berlino 2020, e di certo un bel passo avanti rispetto all’esordio de La terra dell’abbastanza, di ormai due anni fa.
In effetti per i temi trattati e per lo stile utilizzato, è un prodotto che brilla nella media del cinema italiano, a maggior ragione nel deserto pandemico di quest’anno.
Tuttavia non si può ancora parlare di opera della completa maturità, dal momento che sono ancora tanti i riferimenti esterni che si fanno sentire e che sorreggono la regia dei due giovani autori classe 1988.
Favolacce racconta una storia dai risvolti cupi che coinvolge i ragazzini del quartiere popolare di Spinaceto, alla periferia di Roma, famoso per una delle scene più divertenti di “Caro Diario” di Nanni Moretti. Questa informazione, fornita subito in apertura, introduce una serie di suggestioni che lo spettatore porterà con sé fino alla fine, segnando dunque un percorso interpretativo utile per inquadrare le frequenti escursioni nel grottesco tanto care, per esempio, a Matteo Garrone.
Un’altra influenza determinante che mi sembra di aver colto è quella del bel “Un sogno chiamato Florida” (“The Florida Project”) film del 2017, di Sean Baker, sulle avventure di un gruppo di bambini in un ambiente insidioso nascosto dentro a un guscio colorato e vacanziero.
La Spinaceto dei D’Innocenzo e le rarefatte propaggini di Orlando del film di Baker si somigliano molto nel loro apparire un miraggio piccolo borghese, un vicolo cieco di villette a schiera arredate ikea, con giardinetti privati e piscine di plastica a lenire i rancori di adulti imbottigliati dalla precarietà delle loro esistenze.  
D’altro canto il significato urbanistico del Sogno chiamato Spinaceto è sottolineato dalla locandina stessa dal film, che squaderna il quartiere sulle pagine di un libro sotto la scritta “c’era una volta un sogno che oggi non c’è più”. 
A Spinaceto, i turbamenti dei grandi fiammeggiano dagli occhi spiritati, schiumano tra i denti marci e le maledizioni lanciate a mezza voce, e avvelenano l’aria respirata dai più piccoli, che invece per i loro giochi meriterebbero solo acqua fresca e pulita.
Con quali riferimenti cresceranno questi figli selvatici di padri alienati?
Come potranno sbocciare questi fiori abbandonati tra le erbacce?
“Non se ne sono accorti i genitori! Me ne dovevo accorgere io?”, dice a un certo punto un insegnante, chiarendo così il nocciolo della questione.
Fino a qui, più o meno, i due film scorrono paralleli, ma al momento di scegliere la sua voce, quello italiano prende un’altra strada e assume una propria precisa identità. 
Laddove la soggettiva infantile era il punto di vista esclusivo, infatti, in questo caso il racconto è affidato a un narratore, che inizialmente si presenta come mero intermediario, rinvenendo tra i rifiuti il diario di una bambina, ma che diventa subito onnisciente, rimpolpando i vuoti della trama con proprie riflessioni e congetture.
Anche se la regia sembra a volte suggerire quale delle tre voci stia parlando, come per esempio quando l’inquadratura si allarga fino a vedere i personaggi solo in lontananza, di fatto si crea una struttura con tre livelli narrativi, in cui alla base ci sono i fatti, poi ci sono i fatti visti dalla proprietaria del diario, e in ultimo ci sono i fatti del diario interpretati e plasmati dal narratore. Come mappe disegnate su fogli traslucidi, che se sovrapposte confondono i confini di una o dell’altra, così diventa impossibile orientarsi tra i territori del vero, del percepito e dell’immaginato, rendendo possibile ogni percorso e lasciando allo spettatore il piacere di perdersi nella fabula.
Si genera allora un senso di inquietudine vibrante, anticipato in principio dall’annuncio di un delitto disumano, e costantemente ravvivato da folate di pericolo e di follia spinte da una colonna sonora ricca di sospiri, singhiozzi, gemiti e altri effetti disturbanti.
Se la scelta di questa voce funziona e colpisce perfettamente il bersaglio, purtroppo non si può dire altrettanto della lingua scelta per i personaggi.
Il romanesco del narratore, pur senza ricorrere a termini dialettali, vorrebbe richiamare un carattere ruspante, tipicamente associato al residente medio del quartiere, che però in realtà non si accorda molto col lessico forbito, quasi da intellettuale, che gli autori gli accollano.
Anche nel parlato degli attori c’è qualcosa che non va, perché pur non perdendosi mai il senso di quello che succede, sono diversi i punti in cui proprio non si capisce quello che viene detto sullo schermo.
Questa confusione di linguaggio, programmatica e effettiva, rappresenta un po’ il limite estremo di una pellicola molto valida sotto tutti gli aspetti, ma che nel suo voler a tutti i costi giocare in casa, tradisce ancora qualche insicurezza e qualche timore.
Meno male che c’è Elio Germano, che giganteggia come sempre, condensando l’ampia gamma di venature del suo fragilissimo pater familias in un impenetrabile prisma dalle sfaccettature fittamente compresse, immagine dell’oppressione di questi nuovi poveri sempre in bilico tra l’indigenza vera e gli indispensabili simulacri di un finto benessere.
Non che gli altri attori non siano bravi, tutti recitano di certo senza sbavature, ma a parte Germano, gli altri sembrano tutti accontentarsi di fare il loro compitino, senza portare un qualche valore aggiunto al risultato generale, contribuendo al contrario all’atmosfera estremamente localistica che sa un po’ di maniera.
Tutti parlano molto bene di Favolacce, ne parlo bene anch’io, perché è un’ottima fiaba nera, che trasporta i suoi orchi, i suoi bambini abbandonati nei boschi, e i suoi pifferai magici, nel paesaggio sociale di oggi, specchiando le moderne periferie spinte via dalla gentrificazione, negli antichi villaggi medievali ai piedi del castello.
Un discorso affascinante che vale ormai dappertutto, per un film che, infatti, per i suoi contenuti potrebbe parlare a chiunque, ma che forse per troppo pudore, decide di ancorarsi a una romanità specifica e di non uscire dall’ombra sotto cui da tempo si riparano i tanti figli e nipoti di Claudio Caligari.
Per questo credo che per i Fratelli D’Innocenzo, nonostante il valore di questa loro seconda pregevole firma, il meglio debba ancora venire.

Un commento Aggiungi il tuo

  1. The Butcher ha detto:

    Un articolo molto interessante su un film che in realtà ha diviso molti. C’è chi lo considera un capolavoro e chi invece un film inguardabile. Per me è un buon film con ottime intenzioni e idee che però non riescono a dare il massimo. La sceneggiatura è stupenda ma non altrettanto la regia. Comunque posso dire di essermi affezionato a questo film.

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