Munich (2005)

Regia: Steven Spielberg
Produzione: USA, 2005 – 164’

La notte del 5 Settembre 1972, durante le Olimpiadi di Monaco di Baviera, una squadra di terroristi palestinesi del gruppo Settembre Nero penetrò nel villaggio sportivo, aggredendo e sequestrando undici tra atleti e funzionari della delegazione israeliana.
Il giorno seguente, in mondovisione, mentre i Giochi continuavano, si impostò una trattativa per lo scambio degli ostaggi con una lista di prigionieri politici.
La notte, durante il trasferimento in un aeroporto vicino, tutti gli ostaggi e quasi tutti i sequestratori rimasero uccisi in uno scontro con la polizia tedesca.
Tutto questo viene raccontato nei primi 9 minuti. Su 164.
Perché Munich non è un film d’azione sull’attentato, ma un film di spie, che esplora gli sviluppi politici e psicologici successivi attraverso un’operazione segreta finalizzata all’uccisione di obiettivi collegati a Settembre Nero e all’OLP.
Nella vasta filmografia di Steven Spielberg, questo capitolo è considerato allo stesso tempo uno dei più autoriali e insieme uno dei più trascurati.
Appartiene alla sezione adulta del suo catalogo, ma nonostante il tema tragico e i particolari crudi, non arriva ai livelli di empatia e di dramma dei vari Salvate il soldato Ryan, Schindler’s List o Il Colore Viola.
Questo perché probabilmente lascia intravedere troppo la sua radice teorica.
Prendendo spunto dal romanzo Vendetta, di George Jonas, segue le missioni del protagonista Avner Kaufmann, un agente del Mossad patriottico e idealista, a capo di una squadra di variegati quasi-sicari a caccia di una lista di nomi ritenuti pericolosi per Israele. A loro disposizione hanno appoggio logistico e finanziamenti per non badare a spese, ma dovranno muoversi in un’Europa nel cuore della Guerra Fredda, dove la questione palestinese si incrocia con l’internazionale terrorista, il KGB, la CIA e una miriade di altri gruppi misconosciuti, ognuno con le sue modalità e i suoi scopi.
Man mano che l’operazione procede e le missioni vengono completate, si assiste a un mutamento nel carattere di Avner.
La visione cristallina del quadro generale che aveva all’inizio, pian piano si appanna, si sporca, si frantuma con l’aumentare dei dubbi che ogni esecuzione porta con sé.
Comincia a chiedersi in che misura i suoi bersagli siano implicati nell’attentato, diffida dei propri responsabili, si avvicina a personaggi e organizzazioni con scopi diversi dai suoi.
Lentamente ma progressivamente sente acuirsi la distanza con quello che sta lasciando indietro e che motiva le sue scelte: una patria, una vita, una famiglia.
Si rende conto che buona parte di ciò in cui crede non è che un abbaglio, un riflesso, condizionato da quello che gli hanno sempre raccontato.
Questo offuscamento progressivo è simboleggiato dal frequente ricorso a giochi di rifrazione che esplicitano le inquietudini di Avner.
Ci sono scene dove con un’unica inquadratura fissa del finestrino di un’auto, oltre al suo volto compaiono i visi dei suoi compagni, suggerendo che in quel momento lui condivida con loro la stessa visione delle cose, lo stesso punto di vista.
In altre scene prende a immaginarsi il ritorno a una vita domestica quando riflette la sua immagine sulla vetrina di un negozio di arredamenti.
In un altro momento ancora, subito dopo uno sconsolato confronto con i suoi, viene inquadrata una porta a vetri che rende indistinguibile l’immagine di chi ci sia dall’altra parte.
Sono diversi, poi, i vetri, gli specchi, e i fanali che vanno in pezzi, e forse anche l’insistenza con cui vengono bagnate le strade, riempiendo lo schermo di bagliori e di riflessi, va letta in questo senso.
Insomma il film è costruito in modo raffinato, e Spielberg è come al solito una macchina da guerra infallibile, però come spesso succede, resta nei suoi lavori più drammatici qualcosa di irrealizzato o, peggio, di abortito.
Confesso che pur riconoscendo nella sua regia una maestria senza pari, nutro da sempre forti pregiudizi verso il suo ruolo di narratore, in particolare non riesco ad accettare quella tendenza cerchiobottista e accomodante in cui sceglie ogni volta di incanalarsi e – a mio giudizio – di limitarsi.
Anche in questo caso è fenomenale nel calare lo spettatore in una storia di spionaggio misteriosa e avvincente, con personaggi ben caratterizzati e una tensione discreta e sottile ma sufficiente per guardarsi continuamente alle spalle.
Magari il protagonista vero e proprio non brilla di carisma, ma sebbene Eric Bana resti abbastanza anonimo, in fondo questa è una caratteristica frequente per gli eroi di Spielberg.
In compenso è circondato da un cast all-star, che vede Daniel Craig, Mathieu Kassowitz, Geoffrey Rush, Hans Zischler, Mathieu Almaric, Moritz Bleibtreu, e una lunga serie di grandi attori internazionali, ognuno potenzialmente indiziato di nascondere, sotto il suo carisma, un ruolo decisivo nel sospettoso clima finale.
Però poi tutto il pathos viene come frenato dall’impressione di camminare su un filo per non bagnarsi le scarpe.
Nella narrativa moderna siamo abituati a sottolineare le complessità dello scenario contemporaneo attraverso storie in cui tutti sono colpevoli e nessuno è innocente, in questo modo si orienta il dibattito sulle responsabilità individuali.
Guardando Munich, invece, si ha l’impressione opposta: che nessuno sia in fondo colpevole e ciascuno abbia le sue ragioni per uccidere.
I personaggi sono condotti ad atti spietati indipendentemente dalla propria volontà. Come sono buoni gli israeliani, vien da dire, e come soffrono i palestinesi, e che alti ideali che perseguono i finanziatori dei bombaroli in giro per il mondo…
In questo senso intendo dire che, nel modo in cui il film viene risolto, emerge una radice teorica concepita per raccontare i fatti in modo efficace, ma allo stesso tempo per non scontentare e offendere nessuno.
Quello che ne viene fuori è una visione opaca, in cui non è chiaro dove il regista voglia andare a parare.
Da una parte sembra dire che l’eccesso di zelo nel regolare i conti porti inevitabilmente a un’escalation di violenza in cui azioni e reazioni si mordono la coda, dall’altra sembra anche dire che per certe offese il fine giustifichi i mezzi.
L’ultima inquadratura si chiude sullo skyline delle Torri Gemelle di Manhattan, trasportando il senso di questa contraddizione nel contesto post 11/9 (il film è del 2005), proiettando dunque un’ombra ideologica sul messaggio ambivalente che Spielberg porta.
L’attentato di Al Qaida giustifica gli eccessi dei sicari e delle torture americane nella “guerra al terrore”?
Oppure, come cittadini messi in guardia dagli eventi passati, dovremmo interrogarci sulla natura delle operazioni militari che ne hanno preso le mosse?
Spielberg questo non lo dice, non si espone, cammina su un filo e anche se tutte le strade sono bagnate, le sue scarpe restano sempre asciutte.

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