La Ragazza d’Autunno

10 Gennaio 2020
regia: Kantemir Balagov
produzione: Russia, 2019 – 130′

Lo confesso, da quando mi hanno parlato della teoria dei colori complementari, non riesco a fare a meno di notare come vengano usati dai registi, dai direttori della fotografia e in generale da chi lavora con le immagini. Per farla breve la teoria dice che ci sono delle coppie di colori che quando vengono accostati si accendono l’uno con l’altro esaltandosi. Una di queste coppie è formata dal rosso e dal verde, che quando sono vicini diventano entrambi più brillanti e vivaci, e infatti è poi per quello che un sacco di ragazze coi capelli rossi sembrano così carine quando si vestono di verde.
In questo film il rosso e il verde si dividono praticamente ogni scena, e l’intensità cromatica che scatenano esalta in modo subliminale il contenuto emotivo delle fortissime sequenze che si succedono senza sosta.
La storia è quella del legame tra due ragazze che hanno condiviso l’assedio di Leningrado, e che una volta vinta la guerra, provano come tutti a riallacciarsi a una vita normale. Però l’assedio, durato due anni e cinque mesi, ha lasciato in eredità traumi che continuano a rimbombare come tuoni, e ferite che non smettono di sanguinare, i sopravvissuti sono ormai frutti rovinati che si raccolgono nell’ospedale in cui le due lavorano, e che diventa il punto di osservazione privilegiato di un paesaggio umano, bombardato e fumante, dove ci si adatta o si muore come fanno gli arbusti nati dopo un incendio, piante dure e secche, predisposte a sopravvivere con risorse esigue, e destinate a concimare il terreno con i propri resti.
Le protagoniste, contraddistinte dai due colori complementari, insieme fanno faville, ma sono così diverse l’una dall’altra che le loro tonalità non si riescono proprio a mescolare.
Iya è bionda, rigida e diafana, soprattutto è alta, altissima, gli altri la chiamano “la giraffa”, lei il mondo lo vede dall’alto, non capisce la calca dei sentimenti umani ai suoi piedi, e quando qualcosa da quel trambusto arriva a toccarla troppo da vicino, si chiude, si blocca, in guerra ha subito una ferita al cervello, qualcosa le è entrato da dietro l’orecchio destro e non è mai uscito, si è piantato lì dentro e ogni tanto scatta come un interruttore di sicurezza isolandola, lasciandola inabile a reagire, esclusa da ogni cosa.
Masha invece è piccolina, è rossa di capelli, e ha la faccia che aveva Niki Lauda prima dell’incidente, un muso volpesco, affilato, lei la vita la fiuta selvaggiamente, e lo sa bene come funziona, non fa che buttarcisi in quel trambusto impiastricciato, qualsiasi cosa succeda, costi quello che costi.
Sono entrambe ragazze interrotte, che insieme stringono un patto sacro che riguarda un bambino, una promessa che per essere onorata conduce ad azioni imperdonabili anche dentro a un contesto già estremo, dove tutto è ridotto alle nuda ossa, a un respiro, che fino all’ultimo è l’unica cosa che conta.
Kantemir Balagov, classe 1991, alla sua seconda regia dopo Tesnota (che io non ho ancora visto ma Paolo Ricci sicuramente sì e scommetto che lo preferisce), presenta un’opera micidiale, veemente, composta da scene una più dura dell’altra, che si spingono fino ai limiti dell’angoscia pur fermandosi sempre un attimo prima di diventare scioccanti, e in cui il volume dell’intensità emotiva è sempre altissimo, e investe gli spettatori come una vampata rovente che riempie ogni spiraglio.
Un film non per tutti, carico di una violenza poderosa, lontana dal disgusto gratuito e infido dello splatter o del gore, ma quasi fisica, come andare a sbattere contro un muro e sentire nel momento dell’impatto restituire tutta la compattezza della pietra spessa e immobile.
Perchè Balagov lo faccia, è poco chiaro, ma in fondo quando si parla di registi russi, di solito c’è poco da scherzare.

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