Pinocchio

Regia: Matteo Garrone
Produzione: Italia, Gran Bretagna, Francia, 2019 – 125’
21 Dicembre 2019

La curiosità e l’attesa di scoprire come Matteo Garrone avrebbe risolto il suo Pinocchio sono pienamente appagate da un film praticamente perfetto, in grado di arrivare attraverso linguaggi paralleli alle diverse sensibilità di ciascuno.  
Le aspettative erano alte perché sul tavolo c’era un autore ormai consacrato, a cui tutti riconoscono il talento visionario con cui indaga la realtà carezzando il grottesco, ma c’era anche il mito di Pinocchio, un archetipo, che di generazione in generazione, dal 1881 è stato romanzo di formazione, favola animata, sceneggiato televisivo, una nuova serie animata giapponese, e ancora film e film, e a cui ognuno lega a modo suo ricordi cari e immaginari forti.
Con queste premesse, e il controverso caso Guadagnino/Suspiria ancora fresco, era lecito essere diffidenti, e temere che una delle due parti finisse per soggiogare l’altra, per esempio l’autore moderno avrebbe potuto prendersi delle libertà sulla storia, oppure avrebbe potuto esserne schiacciato, per un qualche timore reverenziale, a maggior ragione da quando si è venuto a a sapere che con grande sprezzo del pericolo, la parte di Geppetto era finita sulle spalle di Roberto Benigni, uno che con Pinocchio il piede nella buca l’aveva già messo.
E invece Garrone riesce con arte e equilibrismo a profondere la sua potente poetica nel solco del romanzo di Collodi restando fedele a se stesso e all’opera.
Secondo tradizione i ruoli sono affidati a un cast riconoscibile e solido: Benigni, Ceccherini, Papaleo, Proietti, Vetrano, Vacth, e tutti gli altri giocano con gli accenti e le parlate, e si dividono tra chi compone il nucleo toscano del paesello e chi viene da fuori, perché viaggia, perché raggiunto dall’odissea di Pinocchio e Geppetto, o semplicemente perché di origine fantastica.
Come in un film Marvel, ogni attore ha l’occasione e il minutaggio per portare il suo contributo e fare bella figura, partendo da un Benigni finalmente libero dall’eterno ruolo dell’equivoco vivente, per arrivare alla Fata Turchina di Marine Vacth, forse in verità l’elemento più debole della compagnia.  
Il regista lascia il campo alla tradizione ancor più dal punto di vista della trama, seguendo il testo e adottando una narrazione estremamente lineare, senza flashback, con un unico sogno giustificato chiaramente dalla scena, e snocciolando senza troppe complicazioni la famosa serie di avventure che si succedono fino al classico finale con la sua bella morale.
È sul piano delle immagini che invece Garrone si scatena, riprendendo e perfezionando quanto visto ne Il Racconto dei Racconti: un’ispezione capillare alla ricerca delle location migliori, da immortalare in sontuosi campi lunghi e interni risolutamente pittorici, per portare con ogni inquadratura gli spettatori in territori magici, splendidi nel loro essere fuori dal tempo, e facendosi soccorrere, laddove si impongono i limiti della fisica, da effetti digitali davvero convincenti, finalmente all’altezza delle produzioni internazionali.
Tra questi due piani, quello del racconto e quello delle immagini, infila uno strato di elementi nascosti, quasi invisibili, un mastice subliminale che si infila nei vuoti dei non detti e li riempie di inquietudini: personaggi foschi, cupi, animali che si mischiano a uomini e bambini, trasfigurazioni dolorose, dettagli innocenti che nel contesto in cui appaiono diventano stranianti, come ad esempio la profusione di bacini e effusioni, che in un ambiente minaccioso e duro, enfatizzano il candore e la vulnerabilità dei ragazzini lasciati soli, una soluzione apparentemente innocua, ma probabilmente capace di far scattare centinaia di allarmi antincendio nel pubblico moderno, abituato dalla dominante corrente iperapprensiva a rappresentazioni sterilizzate che aboliscono qualunque affettuosità e tenerezza per non rischiare di confonderla un domani con scivolose morbosità.
Ma l’elemento che più di tutti Garrone sottolinea e fa emergere è la fame: una fame disperata, imposta dalla miseria, che rende schiavi adulti e bambini, buoni e cattivi, e che per traslato sottende uno stato di difficoltà talmente estremo da offuscare il giudizio e corrompere le migliori intenzioni.
Geppetto è presentato mentre raschia una vecchia crosta di formaggio alla ricerca di bricioline ancora buone, subito dopo si umilia per mendicare un piatto di minestra in una locanda. Il Gatto e la Volpe sono mossi da una fame inestinguibile, e anche Mangiafuoco sembra non capire più nulla davanti a un montone cotto a metà. Nel paese di Pinocchio nessuno fa niente per niente, le persone quando non sono incattivite, sono come minimo diffidenti e chiuse, così la scelta di essere buono e di seguire il cuore più che la pancia assume una valenza più forte, e in questo il film parte dalla grande tradizione letteraria e teatrale, ma guarda e si aggancia anche al commovente protagonista di Dogman, recuperando quindi il dialogo col presente a cui Garrone non rinuncia mai.
(A questo proposito, a buon intenditor, poche parole.)
Proprio negli anni in cui la stessa Walt Disney scontenta tutti ripulendo i suoi classici con versioni live-action appiattite dal politically ultracorrect, e arriva a cooptare Tim Burton solo per sedarne il genio, Matteo Garrone se ne frega dei pruriti, e resuscita lo spirito ancestrale della Fiaba, che come l’arte sacra vuole educare e spaventare, e mentre racconta ai più piccoli di un burattino di legno che impara a comportarsi bene, inquieta i più grandi con visioni piene di meraviglia e di mistero.
Il suo Pinocchio è un film assolutamente riuscito, che si offre a diverse letture semplificate grazie ai contenuti pop, mentre con la sua cifra autoriale sa parlare a chi vuole vedere tra le righe altri tipi di discorsi. Per merito di questa versatilità e al suo essere collocato fuori dal tempo, si presta a essere visto e rivisto senza rischiare di perdere fascino con gli anni, e io spero che, proprio come i capolavori che l’hanno preceduto, possa diventare un grande classico per la prossima generazione.

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