La Mafia non è più quella di una volta

16 Settembre 2019
Regia: Franco Maresco
Produzione: Italia, 2019 – 98’

Da diversi anni la criminalità organizzata è sparita dal discorso politico. Di mafia (e di camorra e di ‘ndrangheta) si parla solo per dare addosso a Saviano, e intanto si riempiono i telegiornali e i talk di riforme, di immigrazione senza controllo, di capacità di attrarre investimenti, senza tenere minimamente conto della prontezza con cui le mafie intercettano i flussi di capitali, nè dell’impatto che i loro interessi hanno sulla vita del Paese, dall’influenza nell’amministrazione e nell’orientamento dell’opinione pubblica, al dilagare della violenza, dall’impoverimento dei territori, all’occupazione di settori strategici come l’edilizia, il commercio al dettaglio o il ciclo dei rifiuti.
Ma quindi, a più di venticinque anni dall’assassinio dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a che punto siamo con la lotta alla Mafia?
Franco Maresco risponde a questa domanda con una docufiction caustica e spietatamente ironica, girata tra le strade di Palermo nei dodici mesi tra il 19 maggio 2017 e il 19 maggio 2018, data scelta per ricordare l’anniversario degli attentati del 1992, quando un devastante attacco allo Stato sconvolse il paese e convinse migliaia di persone a protestare e manifestare in cortei affollatissimi.
Fedele al conflitto, instancabile nel tenere aperta la ferita, il regista palermitano prende il microfono e la telecamera e scende nelle piazze e nei mercati a tastare il polso, a chiedere in giro cosa sia rimasto dal novantadue a oggi di tutto quell’essere stanchi e contro, di tutto quel tenersi per mano, della voglia di stare vicini per trovare coraggio e sperare in qualcosa.
Le risposte, come purtroppo ci si aspetta, sono disarmanti: poche alzate di spalle, soprattutto un coro di insulti e di consigli su come usare al meglio determinati orifizi ai capi dell’apparato digerente.
Per mitigare lo sguardo cinico e sconfortato che comunque predilige, Maresco invita ad accompagnarlo Letizia Battaglia, persona bellissima e artista celebrata, una delle fotoreporter più impegnate politicamente e professionalmente, testimone e messaggera della seconda guerra di mafia durante tutti gli anni ‘Ottanta. Battaglia offre un controcanto agguerrito, affronta le punzecchiature dell’ombroso amico con un carattere combattivo e una speranza ben lontana dalla semplicistica sdrammatizzazione, ma anzi una speranza che tiene gli occhi aperti, che pur duramente ferita, la porta a misurarsi con l’arroganza mafiosa esponendosi alla delusione e allo scoramento spoglia delle armi dei pregiudizi.
Insieme, si affacciano nei luoghi in cui si celebra l’anniversario scoprendo quanto questo sia stato svuotato di significato, trasformato da un momento di riflessione e condivisione di un lutto pubblico, in una specie di festa di strada chiassosa, sconvenientemente allegra e scanzonata, un’occasione come un’altra di profitto per i commercianti e di passerella per i politici.
Una situazione paradossale che però passa praticamente inosservata, sommersa dalla narrazione locale e nazionale, che con gradazioni diverse evita il confronto e si auto inganna con messaggi di negazione o di impalpabile riscossa sociale.
Il film estrae e rende visibile il sentimento di rimozione, accentuandone il vigore maligno attraverso le risposte più spiazzanti e il registro del grottesco, facendolo quindi stridere ancora più forte proprio nel cuore del problema, laddove la percezione dovrebbe essere più sensibile.
Nonostante la gravità del tema, comunque, il tono è sempre quello della commedia, e in modo sarcastico, certamente anche cattivo e cinico, le occasioni per affrontarlo ridendo non mancano. 
Lo sguardo e la voce del regista si pongono infatti come punto mediano tra la figura seria, schietta e indomita di Letizia Battaglia, simbolo di chi non si rassegna alla cultura mafiosa, e quella ridicola, abbietta e meschina di Ciccio Mira, l’imbarazzante impresario protagonista del precedente “Belluscone – Una storia siciliana”, soggetto paradigmatico di chi in quella cultura è totalmente immerso e complice.
Ciccio Mira organizza miserabili concerti di piazza, dove esibisce una galleria di personaggi assurdi che con un abbozzo di sceneggiatura Maresco sfrutta per scatenare la vena tragicomica che porta il pubblico a ridere di loro.
Utilizzando una voce sterile, fintamente stupita e scandalizzata, a imitazione della lingua codificata del giornalismo conforme, Maresco accende il contrasto con le risposte brutali che riceve, e come da tradizione deride i suoi “attori”, accomunando l’ignoranza alla sciatteria e alla miseria morale e civica, crea un parterre di semimostri, personaggi brutti, sbagliati, di cui si può solo ridere, anche e soprattutto per le cose che dicono.
È risaputo che il grottesco funziona da specchio deformante della realtà, creando un mondo parallelo dove elementi alterati mettono in gioco le stesse dinamiche della realtà dei “normali”. 
Così mentre il crudele Maresco incalza il povero Ciccio Mira, mentre questi incassa qualunque allusione come un muro di gomma che “millanta e brilla”, il regista sorprende il proprio stesso pubblico a ridere sguaiatamente di cose che a ragion di logica dovrebbero spaventare a morte e spingere a scappare via da questo paese ormai perduto.
Sebbene sia ovvio, non è superfluo sottolineare come il tema principale del film sia l’omertà, declinata nei suoi diversi aspetti. Che si tratti di un primitivo sentimento di paura o di un più articolato impulso alla rimozione, comportamenti come il non dire e il rifiutarsi di vedere sono il concime adatto per il florido proliferare della cultura mafiosa, che come messo in scena, porta inevitabilmente all’imbruttimento e al disfacimento della comunità. Una vergogna che secondo il regista non riguarda solo gli ultimi, ma perlomeno tutti gli italiani, infatti dopo aver rastrellato per bene i quartieri popolari arriva a raggiungere col suo abbraccio severo il vertice massimo dello Stato, coinvolgendo il Presidente della Repubblica in una polemica che ha il suo senso più verso la carica istituzionale che sul piano personale.
Per questo messaggio scomodo e civile, per il sempre dissimulato trasporto che spinge Franco Maresco a fare scelte impopolari e anticommerciali, ma anche e soprattutto perché seppur amaramente, nel film si ride parecchio, non sarebbe affatto male andarlo a vedere.
Arrivederci.  

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