
29 Agosto 2019
Regia: Fatih Akin
Produzione: Germania, Francia, 2019 – 115’
Nella Amburgo dei primi anni ’70 Fatih Akin era un bambino e Fritz Honk era l’orco.
Le gesta del mostro, che uccise e smembrò un numero ancora incerto di disperate nel quartiere di St.Pauli, si interruppero nel ’76, quando Akin aveva tre anni, ma l’ombra del serial killer dev’essersi proiettata ancora a lungo nell’infanzia del regista, perché dopo più di quarant’anni decide di affrontarla in un film estremo, che annulla ogni distanza per ritornare violentemente nel centro dell’incubo e della paura.
Dalle dichiarazioni rilasciate in alcune interviste, Fatih Akin spiega di essersi basato su un romanzo di Heinz Strunk del 2016, ma di aver sorvolato sulle origini di Honka, guastate da abusi, umiliazioni e traumi sia fisici che mentali, per non offrire alibi al perverso allontanamento da quella che chiamiamo “la normalità”.
Nel suo film, Il Mostro di St.Pauli è un mattucchino sudicio e volgare, perfettamente diluito nello squallido quartiere che bazzica strascicando i piedi e scancherando tra una sbronza e l’altra. Non è un caso che il titolo originale Der Goldene Handschuh, prenda il nome del sordido pub popolato dalla congrega di emarginati che si raduna per piangersi addosso e dimenticarsi che fuori c’è il sole.
Tanto per intendersi sui toni prevalenti, se la scansione dei delitti di Honk e la loro meccanicità possono ricordare l’ultimo Lars Von Trier, il cast di brutti musi, le nudità e l’aspetto triviale delle relazioni tra i personaggi riportano più al grottesco Cinico TV di Ciprì e Maresco.
Nella coltre nefanda che Akin alza, si perde il senso dei discorsi che vorrebbe portare avanti: da una parte la restituzione del clima di pericolo che ha vissuto da bambino e che ha terrorizzato un’intera comunità, dall’altra la denuncia della ghettizzazione di una fetta di quella stessa comunità che è stata lasciata indietro. Impoveriti da un’industrializzazione troppo veloce, ancora feriti dalle esperienze del nazismo, ex-ss e reduci dei campi si mischiano al pub impastandosi con birra, gin, lacrime e piscio in un putridume nel quale nascono mostri, come il protagonista per l’appunto, che prolunga per anni crimini sconvolgenti nell’indifferenza di un ambiente anestetizzato dall’abbruttimento.
La tensione e il coinvolgimento personale del regista emergono nell’accanimento con cui gira. A differenza dei lavori precedenti, questa volta il gusto per il dettaglio esplicito non viene mitigato da nessuna ironia o estetismo, e il tutto viene piegato a una morbosità che lascia davvero poco spazio all’empatia e che sembra spaventare lo stesso regista, che diverse volte abbandona lo stile per nascondersi dietro i soliti muri, impedendo al film di diventare davvero avvincente.
Tutto il racconto è, nei fatti, un campionario di sporcizia mentale e morale, con pochissime occasioni di respiro per lo spettatore, che viene costretto a subire l’esposizione livida e cruda degli assalti del maniaco mantenendo costante per quasi due ore un’espressione di forte disgusto, equiparabile forse a quella che si coglie sorprendendo i propri genitori a pomiciare.
Difficile poterlo consigliare.