
27 Gennaio 2019
Regia: Emmanuel Finkiel,
Produzione: Francia, Belgio, Svizzera, 2017 – 127‘
Secondo il discusso e discutibile sistema di valutazione delle stellete, a La Douleur ne vengono assegnate quasi più di quelle che stanno in cielo. Sono quindi corso a vederlo, sebbene dopo una settimana scarsa di programmazione fosse già stato trasferito nei cinema parrocchiali (cinema di tutto rispetto, tra l’altro), scalzato dalle irruenti cariche dei candidati agli Oscar che hanno affollato le altre sale.
La visione si è però rivelata piuttosto faticosa, ai limiti della noia, e confesso di essere rimasto perplesso dal consenso raccolto da questa pellicola, che traspone sullo schermo le pagine di un romanzo piuttosto famoso di Marguerite Duras. In realtà il film fonde più racconti dell’autrice, ma quello da cui prende il titolo e il tono, tratta dell’angoscia che oscurò le giornate della stessa negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, quando la Gestapo ne arrestò e deportò il marito.
Nella Parigi nazificata del 1944 Marguerite vaga sospesa, immersa in un dolore che l’affoga e la scalcia; il suo uomo probabilmente è già morto, torturato, ucciso, spezzato, ma l’assenza di notizie le impedisce di abbandonarsi al lutto, la costringe a sperare, ad agire, per non nutrire ulteriormente il mostruoso senso di colpa partorito dalla consapevolezza di essere, lei, ancora viva e lui, ormai perduto. Le voci nella sua testa la ipnotizzano con sospetti e dubbi sulla natura della sua stessa anima, e non smette di chiedersi cosa sente davvero, cosa dovrebbe sentire, cosa sentono le persone intorno a lei, e come la percepiscono. In questo stato di offuscamento avvicina pericolosamente un ambiguo ufficiale collaborazionista, forse proprio il responsabile dell’arresto del marito. La relazione tra i due è obliqua e vischiosa: lei vuole notizie alle quali aggrapparsi, lui vuole annientare la cellula della Resistenza con cui Marguerite e il marito collaborano. La fine della Guerra lascia poi la donna attonita, incapace di condividere la gioia e i festeggiamenti per la Liberazione, ancora più sola contro la folla trascinante che ha fretta di dimenticare, di mettere via tutto e ricominciare.
Il romanzo, o i racconti, indagano gli abissi della solitudine e della colpa con le armi della letteratura, indugiando in descrizioni e speculazioni, costruendo distanze e falsi piani che isolano l’autrice dal suo personaggio sebbene siano la stessa persona.
Il film di Emmanuel Finkiel prova a fare la stessa cosa lavorando sulla percezione visiva della protagonista, abbandonandola nell’eterna penombra del suo appartamento e improvvisamente rischiarando gli esterni parigini di scintille albeggianti, miraggi di una grazia che lei non può più provare, oppure arrivando con felice intuizione a sdoppiarla, ripristinando quella distanza di sguardo costruita nelle pagine.
Purtroppo però il regista non si fida abbastanza della sua mano e cede all’orribile espediente tipico di questi adattamenti troppo letterari: la stramaledettissima voce fuori campo.
Sarà una mia fissazione, ma quando un film risolve il problema di rendere le righe di un romanzo con la banalissima lettura delle stesse da parte di una voce estranea al filmato, non riesco a non viverla come una resa indecorosa. (La stessa sensazione di fallimento la provo quando a teatro si ricorre ai filmati su uno schermo.) Possibile non ci sia modo di tradurre le parole in immagini, in simboli, o se non altro di integrare quelle irrinunciabili frasi in una sequenza con un discorso o un dialogo, di renderle insomma cinema? In tutte quelle occasioni in cui questo succede sembra di vedere il regista colto da un timore sacro, che alza le mani davanti a un libro troppo famoso, non sapendo come trattare una materia così incandescente. Peccato che quella scorciatoia non funzioni quasi mai, poiché è facile che la distonia tra linguaggi diversi emerga troppo chiaramente. Non fa certo eccezione questo film, che infatti viene piombato da sequenze verbose sotto le quali scorrono particolari e dettagli ambientali il cui significato sarebbe già sufficientemente chiaro, ma che vengono sovraccaricati di una pesantezza solo in parte nelle corde del racconto.
Per la sensazione di snervante attesa che si voleva trasmettere, infatti, sarebbero bastati i simboli già azzeccati, come quella sigaretta infinita che brucia sempre e non si consuma mai, ad esempio.
In questo senso non aiuta nemmeno la scelta di inchiodarsi su tutti quei primi piani che così alla lunga perdono di significato regalando fissità inutile a un film che al di là di una spiccata attitudine all’introspezione ha il limite di non crescere mai, di cominciare e finire all’interno di un mono tono da cui non si libera nemmeno quando sembra intravvedersi un qualche sussulto, come nella spy-story appena accennata, o nel momento di scoprire la verità sul supplizio del suo uomo.
Con le sue sottolineature eccessive Finkiel passa una mano di fissativo sui guizzi creativi e, forse per troppa premura, finisce per cristallizzare anche gli spunti più pregevoli sotto una crosta didascalica che conferisce a La Douleur il tono didattico delle proiezioni da scolaresca.