Il Gioco delle Coppie

il

Regia: Olivier Assayas
Produzione: Francia, 2018 – 100’

L’ultimo film di Olivier Assayas comincia senza titoli di testa, e comincia in medias res, come si dice, già nel mezzo della cosa, del discorso, o meglio di uno dei tanti tantissimi sconfinati discorsi che i personaggi di questa Comédie si avvolgono addosso per scordarsi le proprie nudità.
Secondo il modello a cui rimanda la memoria, cioè “Le Invasioni Barbariche” del 2003 e ancor di più il precedente “Il Declino dell’Impero Americano” del 1987, una community di amici e colleghi, tutti impiegati nel mondo dell’editoria parigina, si frequentano in un’atmosfera conviviale dove ognuno dal suo punto di vista affronta il crollo dei riferimenti culturali e esistenziali su cui si sono sempre basati.
Leonard è uno scrittore spelacchiato dal talento dubbio, che succhia dalla vita sua e delle sue amanti per sputare fuori romanzi, o meglio “autobiografie romanzate”.
Alain è il suo fascinoso editore che sembra sempre parlare con le mani in tasca, forse perché è lì che si tien stretto alle sue verità.
Selene è sua moglie, un’attrice che per una vita ha sognato il teatro ma alla fine è diventata famosa per una serie tv coi poliziotti.
Valérie è la fidanzata di Leonard, segue la campagna elettorale di un politico di centrosinistra e ne cura l’immagine impeccabile per convincere tutti delle sue buone intenzioni.
Laure è la giovane incaricata allo sviluppo dei contenuti digitali, alfiere del nuovo che avanza e latrice di morte e distruzione per il resto della compagnia.
I borghesi liberal di Assayas vivono nelle loro bolle parlandosi addosso con argomenti anche fin troppo convincenti, anzi talmente appuntiti da punzecchiare lo stesso pubblico, che pronti via si trova subito diviso in due squadre, e poi convinto a cambiare divisa, e poi in una corsa infinita tra ristorantini, caffè, salotti e camere d’albergo, all’inseguimento di conversazioni, conferenze, chiacchiere, arringhe, gossip, tutto un parlare che si risolve ovviamente in una gran tromberìa. Questo che va con quella che è sposata con quell’altro che però ama un’altra ancora che forse ci prova con un tizio che poi invece va con una…eccetera eccetera eccetera.
I critici veri, quelli che han studiato, vedono in Assayas un loro campione, un prodigio di arguzia e tecnica che nei suoi lavori porta avanti una poetica raffinata destinata a pochi, e di questa esclusività se ne compiacciono quasi con malizia.
Io sinceramente resto sempre un po’ così, a chiedermi dove sia poi tutto sto genio.
Di certo nessun altro regista entra così tanto nella contemporaneità, prendendosi tra l’altro tutti i rischi del caso. In uno dei tanti notevoli scambi, si sente dire, grossomodo, che per poterne raccontare ai lettori un’interpretazione, “lo scrittore dev’essere fuori dal suo tempo”. Eppure la sua sceneggiatura si regge su discorsi e argomenti che non avrebbero avuto senso due, o al massimo tre anni fa, e non avranno più alcun senso tra due o al massimo tre anni. Crisi dell’editoria, fake news, serie tv, social media, cartaceo contro digitale, l’arte e il mercato, Haneke o Star Wars.
Questa coltre di pseudo attualità è destinata a putrefarsi in pochi mesi, e dalle scorie marcescenti emergeranno i significati più profondi del film, temi come la doppiezza delle parole, l’horror vacui da cui tutti scappano, le prerogative dell’arte sulla vita, del pubblico sul privato; temi che già affiorano distintamente a una prima visione, ma la cui evidenza si rafforzerà con lo sfiorire dello strato più giocoso. Nella sua progettualità è dunque un film pensato per migliorare invecchiando, e non c’è da dubitarne vista l’accuratezza della scrittura e la densità dei contenuti trattati.
Tuttavia malgrado la grande precisione e l’estremo calcolo con cui gli elementi sono mescolati, l’autore non scioglie una certa glacialità che gli impedisce di arrivare agli spettatori, che infatti accompagnano la proiezione con un brusio costante, generato solo in parte dalla partecipazione alle discussioni sullo schermo, e più spesso dall’insofferenza di quella parte di pubblico che si sente poco coinvolta da questioni forse troppo attuali ed effimere.
La perniciosità dell’idea della “bolla”, nella sua accezione sociologica più recente, è chiara al regista, che sembra volerla sfidare e demolire nella sequenza finale.
Fino a quel punto la colonna sonora praticamente non esiste, e il sottofondo ai dialoghi è dato dai rumori ambientali dei vari locali e localetti che i personaggi abitano: che siano posti pubblici come i caffè, o privati e intimi come tinelli o camere da letto, si tratta sempre di spazi chiusi, differenziati di volta in volta nell’illuminazione, a rappresentare appunto quegli ambienti artificiali in cui certe comunità si formano e si ritrovano per nutrirsi di riferimenti comuni e esclusivi.
La scena finale invece si svolge al mare e si apre e si chiude con un commento musicale che appare come un sipario per marcare una differenza di atmosfera. All’aria aperta, infatti, sotto una luce più naturale, le varie situazioni vengono rimesse in discussione: Alain conserva il suo posto di lavoro, Selene riconosce che la sua parte nella fiction è quella di una poliziotta e non di una “esperta di crisi”, Valérie aspetta un bimbo e Leonard si rivela nella sua meschinità.
L’apertura e il disvelamento che questo finale vorrebbe suggerire però non sembra sufficiente; tutta quest’aria alla fine non c’è, e vien da dire che nonostante qualche sorriso acidino, per trovare sinceramente divertente il film bisognerebbe proprio appartenere a una certa bolla.
Il che mi sembra un po’ un limite.
Secondo me.

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