
22 Dicembre 2018
Regia: David Lowery
Produzione: USA, 2018 – 93′
La verità è che uno ci può anche provare ad approcciarsi a questo film infischiandosene che sia “l’ultimo film con Robert Redford”, ma se si scarta questa prospettiva, quello che rimane da vedere rischia di essere ben poca cosa. Invece sotto la lente dell’encomio tutto il discorso prende un tono crepuscolare e soffice che si può accettare e interpretare.
Nel 1981, in un tempo in cui il nastro delle cassette si incartocciava, le macchine sbattevano, e ancora si entrava in banca con una pistola, Forrest Tucker è un elegante e garbato signore con una lunga carriera di rapine e evasioni.
Ha la faccia di un vecchio Robert Redford, che insieme a un vecchio Tom Waits e a un Danny Glover sempre uguale, compongono la banda che ripulisce i piccoli sportelli di provincia lasciando allibiti impiegati e guardie. Se non fosse per l’agente Hunt, forse i poliziotti lascerebbero pure perdere, smarriti dalla classe che i tre sfoggiano nei loro colpi, realizzati senza violenza e senza sparare, tanto che in fondo i veri crimini sembrano essere altri.
Ma l’agente Hunt di Casey Affleck è talmente scazzato, talmente fuori sincrono rispetto al suo tempo e ai suoi colleghi, talmente sgonfiato di ogni entusiasmo, che malgrado una radicale indolenza si appiccica alla pista che porta ai ladri, e forse per noia, o forse perché affascinato da una preda che esibisce un saper vivere così luminoso e a schiena dritta, a poco a poco stringe il fuoco attorno al bersaglio.
Nel mentre, Tucker il biondo soppesa il momento in cui appendere i ferri al chiodo e godersi la vecchiaia, magari con una dolce signora, col nasino a punta di Sissy Spacek, che gli prepara una limonata intanto che dalla veranda il tramonto rosseggia i cavalli nel prato. O forse anche no.
Il racconto di un bandito incorreggibile e dei suoi altrettanto tignosi amici e nemici, si fonde in quel tramonto sulla veranda col saluto composto a un attore mitico che ha fatto la storia di una certa Hollywood arrembante e un po’ insolente.
Ci si poteva aspettare anche un’uscita di scena più a effetto per una stella così splendente, ma con tutto il suo languore e la sua flemma, The Old Man & The Gun si tiene bene alla larga dalla lacrima facile o dalla rincorsa a una qualche scena madre, e sceglie invece di prendersi tutto il tempo del mondo per indugiare sugli sguardi indomabili di occhi appagati, su ricrescite prepotenti, sui riflessi discreti di un sorriso che nutre rughe raggianti.
Sebbene tutto il film guardi senza alcun dubbio agli anni ’70, il regista David Lowery piazza armi e bagagli nel 1981, nei primi mesi del presidente Reagan, quando quel decennio è morto e sepolto, per far pesare ancora di più il senso di nostalgia in cui intinge la pellicola.
Così non soltanto gli spettatori, ma anche i personaggi, e gli attori dentro di loro, guardano al tempo che è stato con fierezza, perfettamente pieni del senso di esservi appartenuti e di averlo in qualche modo forgiato.
Un commiato come quello di Robert Redford merita un momento di attenzione, di sospensione, e pazienza se qualcuno in sala si lamenterà di una trama che va avanti piano piano e del suo ritmo pigro.
In fondo questo è un film per irriducibili, fatto da irriducibili.