
10/12/2018
Regia: Paweł Pawlikowski
Produzione: Polonia, 2018 – 90’
Io cercavo in realtà un film che facesse piangere un sacco, e speravo di trovare soddisfazione in questo bel melò di Paweł Pawlikowski. I trailer promettevano davvero bene: bianco e nero, musiche fumose, capelli biondi e tristezza a sbadilate. In realtà si è rivelato un film molto più misurato di quanto mi aspettassi: elegantissimo e rigoroso, caratterizzato in modo deciso da soluzioni formali che quando infrante liberano energie sensuali trascinanti.
Si comincia in Polonia nell’inverno del 1949, in un freddo abbacinante, una piccola compagnia di tre persone batte le campagne gelate alla ricerca di canti popolari o di qualsiasi traccia di folklore possa costituire il nucleo di un’identità nazionale da rifondare. Nei desideri dei Sovietici occorre ripulire il nuovo stato vassallo dai segni di una cultura cosmopolita (aschenazita, ma anche tedesca e lituana), cancellare la Storia vecchia per scriverne una nuova.
Il corpo di canto e ballo che si va selezionando sarà il fiore all’occhiello della propaganda, raccoglierà l’eredità rurale di un popolo ancora tutto da inventare per proiettarla in una più funzionale dimensione collettivista.
In questa X-Factor del fango, Wiktor è uno dei giudici, ombroso direttore del coro e musicista esigente e talentuoso, e Zula è invece una delle concorrenti, aspirante cantante dall’aspetto candido e arrendevole, ma con una verve che è spia di un carattere molto più smaliziato delle apparenze. I due sono stelle nel buio, e in questi casi l’attrazione è immediata. Le pressioni politiche però ostacolano la relazione, e gli eventi scagliano i due amanti lontani l’uno dall’altra. Wiktor scopre il mondo oltre la Cortina di Ferro, Parigi gli offre lavoro, Jazz e malinconia.
Zula è una gemma incastonata nella corona di un re, e gira l’Est Europa diffondendo il verbo di Stalin a passo di Mazurka.
Quello che li unisce è però un amore vero e fortissimo, che per tutta la vita tornerà a chiedere un’altra occasione. Nel corso degli anni si ritroveranno più volte, per brevi attimi sfioreranno una felicità permalosa e ingrata, e sempre dovranno misurarsi con un’assenza buia che svuota il cuore.
Gli innamorati di Pawlikowski portano il nome dei suoi genitori, morti insieme nel 1989 e vissuti tutta la vita tra la luce della Fede Cattolica e l’ombra del Muro di Berlino. La dedica finale chiarisce che il racconto di una passione tormentata omaggia la forza di un sentimento capace di sopravvivere in un clima lugubre come la Polonia Comunista.
Per rendere questa afflizione, il regista costruisce un labirinto amoroso frustrante, calpestato da una volontà dispotica, prepotente, ostile a ogni particolarità non omologata alla moltitudine grigia in cui tutti si mischiano e si sporcano, dove nessuno è importante e gli affetti è bene tenerli segreti.
L’oppressione è resa in modo subliminale dall’uso di un formato stretto e dalla geometria delle inquadrature, che vedono al centro sempre il soggetto con la maggior forza: raramente Zula, praticamente mai Wiktor, più spesso i simboli del regime o elementi che schiacciano ai lati i protagonisti, che infatti riescono a conquistare il centro solo insieme, abbracciati.
Alle insidie esterne si aggiungono poi le trappole di due anime opposte, che l’autore veste dei contrasti più forti con una fotografia che abolisce i mezzi toni, accende di luce i bianchi e riempie di notte i neri, per alternarli come i tasti di un pianoforte.
E così alla fine non ti basta Parigi, non ti basta la Senna, non ti bastano tutte le note di tutto il jazz del mondo.
Perché questo è un film d’amore, e il vero amore non vince mai.