22 settembre 2018
produzione: Italia, Germania 2018 80’
regia: Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi
Incendiare i pozzi petroliferi è quello che fanno certi eserciti in fuga con l’intento di lasciare al nemico il peggior scenario possibile.
L’esempio più celebre, quello da cui si fa partire tutto, lo ha dato Saddam Hussein alla fine della prima Guerra del Golfo.
Il caso più recente invece è quello di Daesh che abbandona l’Iraq dopo la sconfitta di Mosul, simbolo della parabola militare e politica dell’organizzazione.
Entrando in città, l’esercito lealista si trova in eredità una fiamma perpetua che disperde la più preziosa delle risorse mentre avvelena l’aria riempiendo il cielo di fumo nero.
Un’immagine forte, ripresa più volte in questo bel documentario della reporter Francesca Mannocchi e del fotografo Alessandro Romenzi, che hanno seguito la riconquista dei territori occupati nelle prime fasi della campagna nel 2016 per poi tornare in Iraq all’inizio del 2018, sei mesi dopo la caduta di Mosul.
Il film si concentra su un aspetto in particolare del dopoguerra: la condizione dei figli di chi ha combattuto.
Che si tratti di militari, civili in armi o jihadisti, l’orrore vissuto segnerà per sempre le nuove generazioni e ne condizionerà le tensioni future.
Lo scenario attuale mostra in modo sconsolato quanto poco si faccia per arginare la minaccia di rancori profondi destinati a riesplodere con ferocia.
Mannocchi riporta testimonianze preziose raccolte tra i militari dell’esercito iracheno, i membri dei servizi segreti e le tendopoli in cui sono rinchiuse le mogli e i figli degli affiliati di Daesh. In mezzo ai due fronti una sventagliata di disperati: da una parte i superstiti delle macerie di Mosul e dall’altra chiunque sia stato ritenuto o anche solo sospettato di aderenze con lo Stato Islamico.
Dalle interviste emerge un odio reciproco nato dalle atrocità subite e fomentato dalla sete di vendetta che nessuno sente il bisogno di placare.
La popolazione di Mosul, dapprima invasa e sottomessa al giogo di una perversa sharia, dopo la riconquista è travolta dagli abusi della giustizia sommaria applicata dai vincitori. Dei terroristi fatti prigionieri non c’è traccia, probabilmente sono stati giustiziati o deportati. I loro congiunti invece sono confinati in campi tenda nel deserto, trattenuti in arresto in balìa di militari che li assistono a intermittenza, lasciandoli spesso senza acqua, medicine o elettricità.
I racconti di particolari crudeli si succedono alle minacce di vendetta in una sequela di rabbia che si autoalimenta rimbalzando da una parte all’altra.
Nessuno sembra infatti disposto a intraprendere un percorso di riconciliazione. Non lo vogliono i civili, che a guerra finita si scoprono delatori impazienti di smascherare il vicino, colpevole magari di non essersi opposto, di non aver saputo resistere a una repressione brutale; e non lo vogliono le donne di Daesh, sconfitte e imprigionate ma sicure di un prossimo rivolgimento di fronte, e per questo ben attente a nutrire di ira la prole.
Il soldato sconvolto dal cadavere squarciato di un bambino kamikaze promette di abbattere ogni nemico, la vedova del jihadista invoca pioggia di morte per le nazioni europee della coalizione, il giovanissimo martire mancato, mutilato di una gamba, professa fede e vendetta nel nome del califfato eterno.
Come il fumo nero che si sprigiona dai pozzi, il veleno di questo clima spietato intossica i bambini strappandoli all’infanzia per farne assassini, bombe a tempo impossibili da disinnescare.
Interpellati, gli apparati iracheni si limitano a una risposta agghiacciante: di fronte a una radicalizzazione così pervicace occorre uccidere più bambini possibile.
Bambini soldati e soldati bambini, omoni grandi e grossi che si fanno ridicoli mentre cercano coraggio cantando canzoni sciocche.
Al di là della durezza del tema, che lascia poco spazio alla speranza, la rappresentazione delle interviste si limita a una forma piuttosto canonica, con figure in controluce, occhi lucidi, mani che si tormentano. Sono interrotte da stralci di video promozionali di Isis, dove si susseguono esecuzioni, addestramenti, bersagli che esplodono e padri che preparano i figli al martirio.
Il vero valore aggiunto a un documentario altrimenti conforme al genere, è dato dalle splendide immagini di Alessandro Romenzi. Coadiuvato nelle riprese aeree dagli ormai indispensabili droni, l’occhio del fotografo propone delle macerie di Mosul una visione apocalittica dalla bellezza straziante.
La città è uno scheletro vuoto, gli edifici carcasse grigie dagli occhi ciechi, appena fuori bruciano colonne di fiamme che vomitano fumo rubando la luce al cielo.
Ai lati delle strade liberate dalle ruspe si ammucchiano sedimenti dove riposano salme scomposte, corpi dimenticati come sigarette spente troppo presto.
Fra le rovine sbriciolate e arrugginite ragazzini si arrampicano, strisciano, frugano a mani nude tra i sassi, ferri vecchi, pezzi rotti da rivendere non si sa a chi.
La pulizia assoluta della fotografia congela la calma dopo la tempesta che copre tutto con un solo colore, quello della polvere e della sabbia, così tanta da sentirne in gola la tosse.
A differenza di altri doc simili, che forzano lo spettatore a prendere una posizione, Isis Tomorrow ha il pregio di concentrarsi su un argomento specifico e difendere un’equidistanza che gli permette di essere duro mirando piú al cervello che al cuore, ponendo una questione fondamentale e facendolo con stile.
p.s: ho preferito usare la denominazione “Daesh” anzichè “Isis” perchè, sebbene negli stessi sottotitoli i due termini vengano considerati sinonimi, gli intervistati usano sempre e solo il primo, che secondo alcune interpretazioni per i musulmani è più corretto in quanto evita una correlazione troppo stretta tra l’Islam e i metodi violenti di quella che è nei fatti una spietata organizzazione criminale. Per un approfondimento sulle differenze tra i due nomi: https://www.ilpost.it/2015/11/15/attentati-parigi-isis-daesh/