Sulla Mia Pelle

sulla mia pelle

17 Settembre 2018

regia: Alessio Cremonini
produzione: Italia 2018, 100’

Alessio Cremonini cura un teso resoconto degli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi, trentenne romano fermato dai carabinieri per un controllo, trattenuto, arrestato, ricoverato e poi morto.
La storia di Cucchi è la storia di un abuso e, nella migliore delle ipotesi, di negligenza.
Il regista si è appassionato al caso e ha scritto, insieme a Lisa Nur Sultan, una sceneggiatura che riassume i crismi di tante altre vicende simili, che si snodano in quelle che l’autore isola come le stazioni di una via crucis moderna: l’arresto in strada, il tribunale, le celle di detenzione, poi il carcere e poi le celle detentive in un’area dell’ospedale carcerario.
Tappe che nel caso di Cucchi, dal giorno del fermo scorrono come i chiodi nella bara, scandendo l’agonia di un corpo che si piega nel dolore e della vita che si spegne.
Per molti motivi questa è una storia che scotta. Intanto perché c’è stata un’indagine e sono ancora in essere dei processi che coinvolgono carabinieri, agenti penitenziari e medici. Poi perché la Politica l’ha strappata alla Cronaca e l’ha fatta sua, poiché molte persone che ricoprono ruoli politici hanno preso posizione sui fatti, polarizzando i commenti e proiettando di conseguenza sul dramma assurdo e atroce vissuto da un ragazzo, le simpatie o le antipatie tipiche di chi usa sposare cause per partito preso.
Perciò il regista sceglie di mostrare solo quello che si può raccontare, attento a non offrire spunti polemici che trascinino il film nelle secche di altre schermaglie, inchieste, provvedimenti.
Affinché  il suo messaggio viaggi il più possibile indisturbato e colpisca senza essere colpito, si prodiga per abbattere ogni ostacolo possibile o ipotetico.
Tira fuori così un film minimalista, scarno come il suo protagonista, essenziale, come quando le cose si riducono alla vita o alla morte.
Tra la vita e la morte Stefano e la sua famiglia si ritrovano diverse volte in quei sette giorni. Occasioni in cui forse sarebbe bastata una parola in più da parte di Cucchi, o uno scrupolo in più da parte di chi avrebbe dovuto assisterlo, e che invece non ha mai sentito il bisogno di vincere una reticenza nata dalla paura di aggravare la situazione. In ognuna di quelle occasioni, sullo sfondo compare una qualche divisa, spesso sulla soglia di una porta che da sul fuori, simboli di uno Stato sempre all’erta, a fare da ostacolo per ogni eventuale risvolto felice e a condannare una famiglia intera al peggiore dei mondi possibili.
Oltre alla vena politica inscritta nella sceneggiatura, i due temi che emergono dalla pellicola sono il dolore e la solitudine.
Le ferite invadono il corpo giorno dopo giorno, gonfiando la pelle di lividi e sangue;  sono esposte da inquadrature strette e concentrate che indugiano su quegli spasmi come a ribadire il prezzo della violenza, monito a un pubblico assuefatto alla brutalità come modo di relazionarsi ma non più abituato a ragionare sulle conseguenze.
Se la macchina da presa si stringe sugli occhi tumefatti di Cucchi, si allarga su spazi spogli quando ne mostra il corpo in pena, sfinito, disteso scomodo su piani rigidi e freddi, abbandonato dallo Stato come i suoi famigliari: soli, isolati, respinti dall’apparato che dovrebbe guidarli ma che invece li svia lontano, a protezione di dinamiche interne, fumose, oscure.
Un film che ad eccezione di alcune inquadrature iconiche pare rinunciare a qualsiasi velleità artistica, può essere un film bello? Difficile rispondere. Per capirlo bisogna sforzarsi di mettere per un attimo da parte tutti gli aspetti politici e sociali e magari tentare l’azzardo di accostarlo ad altri lavori che trattano tematiche simili.
Allora si potrebbe dire che non è angosciante come Diaz, per esempio (che riesce per qualche giorno a farti passare la voglia di andare a una manifestazione), che non ha l’epica di Hunger, dove il protagonista sceglie di soffrire e si fa artefice del proprio destino, che non contiene la carica eversiva dei più famosi capitoli di Petri, e che non offre nemmeno la speranza di un riscatto come in molti analoghi casi hollywoodiani.
Tutto questo gioco a dire “quello che non è” serve per isolare il valore proprio del film: l’intento quasi documentaristico nel raccontare una storia ancora calda, di resistere alla tentazione del lirismo per restare fedele a una realtà il più possibile oggettiva. Testimonianza emblematica di questa vocazione è la prova eroica di Alessandro Borghi, che si impegna all’estremo per restituire alla vita Stefano Cucchi senza renderlo un martire o una figura letteraria.
Va da se che un’impostazione di questo tipo limita l’introspezione degli altri personaggi, che si riducono a una raccolta di dichiarazioni più o meno ufficiali e più o meno note. In certi casi gli autori li adoperano quasi come un coro greco mettendogli in bocca i dubbi e le domande imposte dal semplice buonsenso.
Rinunciare a una certa libertà creativa è dunque lo scotto da pagare all’aderenza ai fatti, anche solo per rispetto verso i reali testimoni e parenti, e in conclusione, dati questi presupposti, sarebbe stato difficile fare di più.
Nel tentativo di ammorbidire l’impatto e non alimentare ulteriori polemiche, Alessio Cremonini rilascia interviste dove afferma di non aver fatto un film politico.
Ma un film come questo non può essere altro che politico.

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