07/09/2018
regia: Sabu
produzione: Giappone, Hong Kong, Taiwan. 2017
Quando venti uomini coi bastoni incontrano un uomo con un coltellino,
tutti e venti gli uomini coi bastoni sono uomini morti.
Nelle notti di Taiwan c’è un killer di seta.
È capace di trasformarsi in un’ombra con gli artigli, ma poi con quelle mani prepara squisiti ravioli cinesi in un ristorante.
È silenzioso, spietato e letale, ma poi si fa beccare in una missione a Tokyo, ed è costretto a una fuga sanguinosa e rocambolesca.
Sembra ormai spacciato, ma poi ripara in una baraccopoli dove è assistito da un bambino, figlio di una giovane tossicodipendente.
Bloccato all’estero, ferito e senza appoggi, spera solo di imbarcarsi per tornare a casa, ma poi l’incontro con una famiglia di mezzi matti gli offre qualche giorno di quasi normalità per immaginare una vita diversa da quella dell’assassino.
Dentro alla scatola di un action movie il regista giapponese Sabu inserisce un discorso dagli aspetti più raffinati, offrendosi all’interpretazione ma senza richiederla in modo esplicito. A causa di questa ambiguità e di una miscela dalle dosi sbagliate, il risultato finale difficilmente soddisferà gli spettatori di oggi.
Le vicende del protagonista sono raccontate sfruttando ed espandendo i cliché del genere, vale a dire tutte quelle situazioni in cui grazie a una tenace forza di volontà e alla provvidenza che li favorisce, i giusti possono superare i limiti fisici e i nemici che li vorrebbero annientati in pochi secondi.
Ci sono gruppi di sicari che si scordano di avere una pistola e che affrontano il bersaglio uno alla volta, ci sono corpi che conservano le funzioni motorie nonostante vengano bucati dal piombo, e c’è l’eroe che dopo essere stato chiuso in un sacco, pestato, accoltellato, sparato e rotolato giù da una rupe, si ritrova con l’unico handicap di una fastidiosissima ferita alla milza, organo la cui sola funzione, è risaputo, è fare malissimo quando danneggiato, ma per la cui guarigione è sufficiente una medicazione alla boia e una bella dormita.
Superata la prima mezz’ora entrano in gioco i temi cari al regista. Il tono non cambia, garantito da una colonna sonora efficace che è la vera ossatura del film, giocata su pezzi house o canzoni più romantiche ma sempre qualche decibel oltre il sottofondo, sempre in grado di farsi sentire e di restituire un’intensità vibrante, che anche nei momenti più leggeri mantiene il film estraneo alla commedia.
Il tono non cambia, dunque, ma cambia lo sguardo, e i dettagli si fanno più cupi e (neo)realistici quando si passa a parlare della giovane madre allo sbando.
Un’ottima Yi Ti Yao, interpreta la cruda parabola di una ballerina, graziosa abbastanza da stuzzicare lo spettatore e insieme fragile quanto basta per spezzarsi bruscamente, segnata da un passato che l’ha spinta prima alla prostituzione e poi all’eroina.
In tutta questa parte centrale il film convince, mischiando la love story con il dramma e alternando momenti di intimità a episodi violenti che non risparmiano colpi bassi.
Ma a ben vedere non è nemmeno di questo che Sabu vuole parlare, o almeno non solo.
Il tema ricorrente per tutto il film, presente trasversalmente ai diversi personaggi è quello dell’incomunicabilità, presa a metafora della chiusura della società Nipponica che da sempre vede nell’isolamento la sola possibilità di conservazione.
Il regista è Giapponese ma sceglie un protagonista di Taiwan e rappresenta criticamente i suoi connazionali, incapaci di relazionarsi ai vicini, anzi neppure di distinguerli, infilando diversi momenti in cui si confondono Taiwan con le Coree o con la Cina o con Hong Kong.
Non a caso nella distribuzione italiana il doppiaggio è riservato al dialetto Hokkien (una variante del Mandarino parlato a Taiwan), mentre il Giapponese resta in originale e viene sottotitolato.
Un altro indizio che porta a pensare a una critica dell’identitarismo è la scena che si sofferma sul teatro NO, formula caratterizzata dalla negazione dell’espressività spontanea e in cui la trasmissione delle emozioni è delegata a un rituale rigido e conformato, e dove tra l’altro si racconta di un samurai e di una geisha, se si vuole le versioni passate dei protagonisti di questo film.
Per evidenziare il contrasto, l’opera è interpretata dai membri della famiglia provvisoria di Mr.Long, che provano senza riuscirci a contenere la propria natura, altrimenti eccessivamente estroversa. Questi, persone semplici, conquistate dalla cucina di un uomo che non sanno capire, sono infatti gli unici in grado di scardinare le convenzioni e portare col loro trambusto un po’ di felicità e affetto al clandestino.
Le differenze linguistiche e le variazioni di registro creano una serie di barriere e di precipizi per allontanare tra di loro i personaggi, che invece trovano la forza e il desiderio di legarsi gli uni con gli altri.
La verosimiglianza di queste relazioni è la cosa che funziona di più nel film. A darle vigore è proprio la mano raffinata del regista che indugia in particolari apparentemente trascurabili ma preziosi nella loro tenerezza, resa vulnerabile dalla minaccia dei cattivi che verranno a reclamare ciò che è loro.
Un gusto e una premura che tradiscono la faciloneria con cui è imbastita una trama la cui ironica pretestuosità non arriva con chiarezza, lasciando spesso lo spettatore a fare a botte con una vocina che gli dice “ma dai!/anche meno/ah questa poi!” eccetera.
Peccato, perché il film è costruito su immagini molto belle da vedere, e contiene diversi elementi di pregio che purtroppo affondano, non essendo sostenuti da una trama che, francamente, sta su con lo sputo.