Un Affare di Famiglia

un affare di famiglia

Hirokazu Kore’eda
Giappone 2018 121’

23 Agosto 2018

Osamu e Shota sono padre e figlio, e sono complici. Sono le avanguardie di tre donne:  la nonna, la madre e la zia, che per mangiare dipendono dai loro furti nei supermercati.
Una sera che tornano a casa soccorrono una bambina di cinque anni che trovano per strada. La bimba si chiama Juri e ha la pelle piena di guai, così tanti che c’è da pensarci bene se tenersela vicina, ma la famiglia Shibata, che resiste a fatica in una casetta affollata e schiacciata dai palazzoni, non si farà di certo spaventare dai guai.
Sotto il piccolo tetto di legno sono riuniti i testimoni di stili di vita alternativi. Modellati come i rami di un bonsai dalle difficoltà economiche, ognuno cerca la propria strada tra gli angusti spazi di regole utili non più per garantire l’armonia sociale, ma ormai solo per irrigidire ulteriormente la loro già aspra condizione.
Così si accettano lavori più o meno degradanti: c’è chi si esibisce in locali per guardoni e chi si gioca la salute in un cantiere o in una rovente lavanderia. Nonostante i rischi e i piccoli ricatti, fanno fronte comune immaginando con spirito una dimensione eroica che giustifichi la loro condotta borderline.
Il piccolo Shota, responsabilizzato dall’arrivo della nuova sorellina, si trova allora combattuto tra le avventure del pesciolino Swimmy, che insieme al suo branco scaccia il grande pesce cattivo che li opprime, e l’affacciarsi dei primi dilemmi morali circa gli opachi metodi di sussistenza della sua famiglia illegittima.
Su questo filo ci si avvicina al nocciolo della questione, cioè all’intrigo di scoprire cosa davvero unisca questi tizi, che in realtà parenti non sono.
Col suo modo leggero e garbato, Hirokazu Koreeda tratteggia le vicende di un clan fondato prima ancora che sul sangue e sul suolo, sullo ius sfigae.
Grazie a un cast di facce fresche e solari innestato dai fidatissimi Lily Franky (nella parte di Osamu) e Kirin Kiki (in quella della nonna), mette a suo agio gli spettatori costruendo il contesto affettivo con scene di calda intimità domestica.
Lo svelamento progressivo dei reali rapporti alla base della convivenza illumina una serie di riflessioni, dubbi e interrogativi sul ruolo delle convenzioni in un tempo in cui dettano legge solo le istanze della modernità e dell’efficientismo.
I personaggi si muovono all’interno di inquadrature fisse, statiche, che richiamano la rigidità del sistema che li contiene, e in cui sembrano spinti da un mondo borghese che per conservarsi rinuncia ai valori antichi e alla solidarietà. Ma nonostante la ristrettezza di spazio vitale in cui sono confinati, gli Shibata non rinunciano a muoversi, condividere i pasti (al solito frequenti e appetitosi), abbracciarsi, fare l’amore.
Se la mano ferma di Koreeda si avverte decisa nei rarissimi movimenti di camera, il suo sguardo sa mantenersi lieve anche nei momenti più sordidi.
Lo stile pudico e la sincera tenerezza che scaturisce dai dettagli della piccola quotidianità irradiano il film con affetto e calore.
L’esplorazione dei legami familiari è da sempre il tema caldo di questo regista pulito e ordinato, ma stavolta si accompagna a un’attenzione più profonda e manifesta ai temi sociali, che arricchisce questo suo ultimo lavoro di una doppia valenza dolce e amara. Un incremento del peso specifico che lo porta alla giusta maturazione e a intercettare i favori di Cannes, dove viene premiato con la Palma d’Oro.
Una consistenza e un riconoscimento che ne consacrano il valore senza compromettere in alcun modo la delicatezza di un film che mentre lo guardi trovi bellissimo, poi lasci il cinema, slacci la vespa e vai in cerca di un piatto di spaghetti di soia e un cordon bleu di pollo, mentre ti accorgi che pian piano sta già evaporando, e alla fine della tua cena notturna capisci che se n’è volato via, da un’altra parte.
Allora sparecchi, riempi la lavastoviglie e spegni la luce, che siamo daccapo.

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