Il Sacrificio del Cervo Sacro

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20 Giugno 2018

Mentre raggiungevo il Cinema Orione in una bellissima serata di Giugno realizzavo che Yorgos Lanthimos, il regista del film che stavo per vedere, era lo stesso di The Lobster (2015), e, ancor più sorprendentemente, dell’agghiacciante Dogtooth (conosciuto anche col titolo greco Kynodontas 2009), un film pazzesco che avremo visto in quattro e del quale meglio non dire proprio nulla. In mezzo ha girato pure Alps (2011) in cui un gruppo di “attori” sostituisce persone morte per aiutare le famiglie a elaborare il lutto.
Pellicole diversissime, giocate tra l’assurdo e l’atroce, in cui il disagio sociale e morale di una Grecia in rovina prorompe come il grido di un folle.
Quindi non sapevo davvero cosa aspettarmi quella sera, distratto più che altro dagli insistiti riferimenti a Kubrick che accompagnano l’uscita.
La prima scena (che non è proprio la prima, ma ci torneremo dopo) si affaccia su un cuore biancastro, palpitante e aperto durante un intervento chirurgico. Steven Murphy (Colin Farrell) è un cardiochirurgo di successo, sposato con l’affascinante oculista Anna (Nicole Kidman), e padre di Bob e Kim, coppia di quasi adolescenti dagli occhi blu mare, bellissimi e devoti. Una famiglia perfetta, schifosamente borghese, in una casa orrendamente ricca e raffinata.
Un guscio impeccabile a protezione della galassia di piccole e grandi bugie necessarie a garantire l’armonia che i Murphy vogliono ostentare.
Steven intrattiene una frequentazione con Martin, un ragazzino dall’aria modesta, caparbio e affabile ma dai movimenti inquieti e dallo sguardo scivoloso.
Visti insieme, i due sono talmente diversi da far nascere subito sospetti sulla natura del loro rapporto, e infatti una tensione sottile comincia a vibrare sulle note di una colonna sonora che dalle scarpe si arrampica sulla schiena come un ragno velenoso fino a raggiungere un punto del collo abbastanza morbido da mordere con dolore.
Così come già in Teorema di Pasolini, il contatto col giovane estraneo scardina il conformismo delle relazioni domestiche e minaccia come un’infezione l’equilibrio ipocrita della famiglia felice del Dottore.
Le allusioni a Kubrick di cui si parla a proposito di questo thriller risuonano evidenti nel ruolo di Nicole Kidman, seducente e fiera, fluida prosecuzione della Alice di Eyes Wide Shut; ma soprattutto si avvertono chiaramente (insieme, di tanto in tanto, a echi di Terrence Malick) nell’uso della steadycam, che segue i personaggi lasciandoli sempre al centro di un panorama che invece si muove e si sposta in simbiosi con l’osservatore, evocando la presenza di un dio panteistico che assiste invisibile e onnisciente al tempestoso scontro degli opposti che il film inscena.
Perché al di là di una confezione di inquietante suspense, la pellicola di Lanthimos è costruita su un massiccio gioco di simboli e di metafore sviluppate su (almeno) due filoni principali.
Il primo è quello più disturbante e sfuggente della contrapposizione tra l’elemento sacro dell’esistenza e quello scientifico.
Il secondo, più evidente e che dispiega una certa ironia macabra, è la lotta di classe tra la borghesia, pavida e distratta, colpevole di una travolgente crisi economica e sociale, e il mondo dei lavoratori precari che ne paga le spese.
Come dice bene Martin in un drammatico faccia a faccia con i Murphy : “Do you understand? It’s metaphorical. My example, it’s a metaphor. I mean, it’s uh… it’s symbolic.”
Cerchiamo allora di addentrarci alla caccia di qualche spunto utile all’interpretazione di questa selva di simboli.
Una grossa mano ce la dà la colonna sonora, che contrariamente alle azioni mostrate, del tutto prive di elementi mistici o soprannaturali, richiama temi religiosi e mitologici.
Prima ancora della “scena del cuore”, sullo schermo buio risuonano le note dello Stabat Mater, inno e preghiera dolente per la Madre Vergine ai piedi della Croce, dove il Padre ha sacrificato il Figlio in espiazione delle colpe degli uomini.  Seguono poi altri brani dal carattere religioso (De Profundis) o pagano (il natalizio “Carol of the Bells”), alternati a eloquenti composizioni originali d’atmosfera, intitolati ad esempio Enantiodromia: termine di origine greca che indica la corsa nell’opposto, ovvero il crescere nell’inconscio di un principio opposto a quanto desiderato razionalmente.
Una scaletta che se esplorata si scopre raccogliere e amplificare le suggestioni lanciate del titolo del film, riferito al mito di Ifigenia, figlia del Re Agamennone e chiesta in sacrificio per espiare l’uccisione di un cervo sacro alla Dea Artemide.
Mentre le musiche e i movimenti di camera lavorano in favore della dimensione occulta regalando a volte brividi spaventosi, la vicenda si sviluppa tra interni eleganti e accoglienti e fredde corsie d’ospedale, dove i personaggi arrancano alla ricerca di evidenze mediche sulla natura di un misterioso malessere i cui sintomi avvertono ma si rifiutano di accettare.
Non sono di certo casuali le professioni della coppia protagonista, legata anche da un’intimità dalle sfumature perverse: cardiologo lui, oftalmologa lei. Gli affetti e lo sguardo sono infatti i due fuochi verso cui tendono tutti gli elementi seminati nel film. Più del malefico Martin, a creare i maggiori danni sono proprio l’incapacità di sentire e la difficoltà di vedere.
Soprattutto sullo sguardo si concentrano le maggiori attenzioni del regista. Lo sguardo obbligato a contemplare un cuore aperto, e quello cieco di fronte a una malattia palesemente inconfutabile ma della quale non sono visibili le prove razionali. E ancora lo sguardo fisso nel vuoto di chi rifiuta di considerare prospettive diverse da quelle pre-viste, e che – messo alle strette – nasconde quello sguardo al peso delle proprie scelte.
Proprio nel rifiuto della responsabilità, nel non voler vedere le conseguenze di una condotta rapace e svagata, si innesta la seconda metafora, quella sociale della lotta di classe.
La famiglia borghese, inchiodata alle proprie mancanze da un giovane senza lavoro e senza prospettive, respinge l’invito a fare ammenda, e anche ridotti sulle ginocchia, i Murphy insistono a reiterare le loro vite ignorando la gravità della situazione e illudendosi di preservarsi da ogni cambiamento.
Una trincea disperata e cieca (appunto) che li porta a rinfacciarsi le colpe e a scannarsi tra di loro.
Inizialmente mimetizzata nel racconto principale, questa lettura viene anticipata da piccoli indizi, poi rapide contraddizioni che svelano un catalogo ricco di non-detti e di sguardi accusatori fino a quando, sottolineata dal crescendo della colonna sonora, esplode nella parte finale, dove si esasperano gli aspetti morbosi a dispetto della perdita di mordente.
È dunque un film che vive di due velocità, una prima parte più tesa e inquietante, vissuta sul sospetto e l’attesa di una sventura che si sente arrivare, e una seconda più esplicita, dove l’epilogo drammatico viene alleggerito da un sarcasmo al limite del grottesco, riservato comunque a stomaci pelosi.
È anche un film complesso, difficile da digerire, talmente carico di sottotesti e di sfumature da risultare pesante anche una volta tagliato a fette.
In conclusione si tratta di un film meno estremo dei precedenti, ma ancora destinato alla nicchia di estimatori di un autore disturbante e complesso ma a modo suo raffinato, il cui talento resta fortunatamente al servizio di un impegno sociale capace di svilupparsi attraverso invenzioni suggestive e mai banali.

p.s: curiosamente ho aperto questa stagione che sta finendo con l’anteprima di un film dai temi simili. Eravamo alla fine di Agosto, e si trattava di Happy End di Haneke, che sarebbe uscito a Novembre. Anche lì si parla di una famiglia borghese che si arrocca in una condizione di negazione rispetto alle trasformazioni culturali e sociali che le si verificano attorno.
Mi sembra dunque più che opportuno cogliere l’occasione di questa nuova anteprima (il film di Lanthimos uscirà in sala il 28 Giugno) per accomiatarmi da chi ha avuto la pazienza (credo) e il piacere (spero) di leggermi in questi mesi. Mesi in cui la pagina è cresciuta più di quel che pensassi; certo anche forzando un po’ la cosa, ma che volete, faccio sempre così, perciò approfitto per chiedere a quanti si fossero infastiditi di una certa insistenza di non prendersela tanto, che alla fine qui si fa tutto con le migliori intenzioni senza voler pestare i piedi a nessuno. Speriamo di risentirci in Settembre. Fino ad allora, Buona Estate!

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