14 gennaio
Stando a quello che sento in giro, e alla fila continua fuori e dentro il Rialto, sembra che tutti ormai abbiate visto questo film, di cui tra l’altro fino alla premiazione dei Golden Globe nessuno aveva sentito parlare.
E dunque, com’è questo “Ebbing”? Bello ma non bellissimo, si direbbe.
La stessa locandina lo presenta come una commedia nera, in realtà è più un film molto duro e molto crudo che viene stemperato nei toni da una colonna sonora malinconica e sognante e da dialoghi serrati e ricchi di battute argute, capaci di strappare risate pur restando sospesi in un’atmosfera tesissima e drammatica.
Ognuno per se e nessun dio per tutti, a Ebbing, Missouri. Una cittadina nel cuore degli Stati Uniti scelta per rappresentare le contraddizioni e lo spirito di una nazione intera. Per raggiungerla si può fare una strada dove ci sono tre cartelloni, un giorno una madre li affitta per attaccare la polizia locale colpevole – a suo dire – di impegnarsi poco nelle ricerche dell’assassino della figlia. Questa affissione scatena gli eventi che travolgono i personaggi che popolano il film. Quello che segue è la cronaca di una tempesta fuori dallo spazio e fuori dal tempo.
Cercando su Maps non si trova nessun posto chiamato Ebbing. Non è dato sapere se si tratti di un paese o di una città, il perimetro dell’azione è circoscritto alle uniche tre strade mostrate, lungo le quali accadono tutti gli avvenimenti raccontati.
Guardando il film non sarà poi semplice nemmeno attribuirgli una collocazione temporale. Fino a venti minuti dalla fine, basandosi sulle auto, le tv e i poster dei Nirvana, si potrebbe pensare che la storia sia ambientata negli anni novanta; dopo c’è una battuta su Google, poi nell’ufficio dello sceriffo si vedono dei monitor piatti (Dell?) che avranno al massimo sette o otto anni, e proprio alla fine saltano fuori dei cellulari che potrebbero anche essere degli smartphone ma non si sa.
L’indeterminatezza è l’unica costante di questa pellicola che strapazza lo spettatore sottraendogli continuamente punti di vista e sicurezze.
Si parte con Francis McDormand praticamente ancora nei panni di Olive Kitteridge (se non l’avete visto, male), nella parte di questa madre agguerrita, spietata nella sua ricerca e accecata dal dolore e dal rimorso.
Un personaggio asciutto e duro che presto passa il testimone ad un altro altrettanto tosto, lo sceriffo interpretato da Woody Harrelson, la quintessenza del duro più duro, che si scopre vivere la vicenda da un punto di vista inaspettato, a sua volta seguito da un nuovo cambio di prospettiva. E così fino alla fine. Il regista accompagna lo spettatore nelle vite di tutti i protagonisti, tratteggiandoli attraverso indizi e battute rivelatrici tese a suggerire idee preconcette destinate a essere improvvisamente abbattute e demolite.
Veniamo quindi messi a parte di questa costellazione di individui che si muovono in ordine sparso, senza nessun sistema di riferimento, un cosmo di persone la cui estrema vulnerabilità si manifesta in scene esplicite e crude. Delitti efferati, malattie, teppisti, abusi di potere; ognuno è vittima di minacce dalle quali non si può difendere. Ogni dramma si consuma sotto gli occhi di una comunità incapace di fare quadrato e di opporsi al male.
Il risultato di questo esasperato individualismo è una generazione (diverse generazioni, in realtà) di famiglie disfunzionali, connotate da relazioni prive di empatia, guastate dal turpiloquio invadente, onnipresente in tutte le case visitate dalla regia: cazzo di qua, cazzo di là, genitori e figli che si danno della troia o del coglione con una leggerezza volgare e aggressiva che brutalizza anche i rari momenti di tenerezza.
In questo sfacelo e attraverso questo continuo gioco di canti e controcanti emergono con feroce sarcasmo le contraddizioni di una società soggiogata da antichi razzismi e soffocata dal pregiudizio.
Perché alla fine dei conti, sopra a ogni possibile lettura, Tre Manifesti a Ebbing, Missouri è un film fortemente politico, che dice quello che deve dire nella sua prima parte, quando è un film contro le guardie e contro il pregiudizio, quando si scaglia sfacciato contro la chiesa cattolica (il regista è quasi irlandese, dopotutto), quando spaventa con lo strapotere degli abusi e quando tutti i personaggi sembra respirino senza la pelle, completamente esposti, pulsanti di nervi e di sangue come se vivessero il loro ultimo giorno sulla terra.
Nella seconda parte, quando prevale la necessità di risolvere il thriller, questo taglio viene meno, e la pellicola sembra quasi dirottata all’inseguimento di un finale che ritorni sulle tracce del giallo, accontentando gli spettatori meno acuti e ancora affezionati a un impianto più classico, ma sempre perpetrando il continuo gioco di specchi dei punti di vista. Così alla fine sembra quasi che in questa storia così cattiva non ci sia nessun cattivo, che, anzi, anche il cattivo più cattivo possa essere – al limite – il cattivo di un altro film.
Il continuo ribaltamento delle prospettive produce l’impressione ambigua che non si voglia prendere una posizione. Posizione che invece ovviamente è presa in partenza, data la costruzione elaborata della regia. È evidente come un giudizio così appuntito possa provenire solo da uno sguardo esterno, che osservi con perplessità le radici psicologiche e sociali di chi per molti anni si è ritenuto il poliziotto del mondo e che oggi si affaccia a uno scenario estremamente complesso e insidioso senza avere al suo interno gli strumenti per interpretarlo.
Alla fine della corsa sembra comunque che manchi qualcosa, pur apprezzando la franchezza e accettando la sfida del regista ai nostri innati pregiudizi, resta lo sgradevole sospetto di una virata (apparentemente) buonista che con un colpo al cerchio e uno alla botte lasci tutto come sta, spegnendo in fondo ogni speranza di cambiamento.