20 gennaio
Saran state le due Tennent’s (due, non tre. mi raccomando non esagerate), ma è da subito evidente che la marcia epica è la sola velocità alla quale corre questo film, dove si racconta di come Sir Winston Churchill abbia compiuto il percorso da outsider dei Tories a Salvatore del Regno e infine statua davanti a Westminister Abbey.
All’inizio del 1940, in seguito a una crisi di governo, un riluttante Re Giorgio (quello balbettante de Il Discorso del Re) affida l’incarico di Primo Ministro a Winston Churchill, a capo di un Partito Conservatore che sembra tolleralo mal volentieri, diviso com’è da faide interne e stressato dall’incombente minaccia dell’avanzata nazista in Europa.
Hitler sembra inarrestabile e dopo aver sfondato in Francia punta ad annientare l’esercito alleato. La corrente più autorevole dei Tories spinge per intavolare un negoziato coi tedeschi nella speranza di raggiungere una resa dignitosa e salvare il salvabile. Ma per Churchill la guerra è guerra, non si fida di Hitler e prima di capitolare vuole esplorare ogni possibile alternativa, anche a costo di drammatiche perdite.
Si arriva così agli eventi raccontati in Dunkirk e si chiude con la celebre arringa “We Shall Fight”.
Parliamoci chiaro, il senso di questo film è raccogliere i frutti seminati da altri. Sfruttare il solco dell’interesse smosso dal già citato Dunkirk e dalla serie The Crown, tra i quali si propone come un ottimo tassello di congiunzione. Non che si tratti di un brutto film, anzi, sfruttando questi due binari (l’epica maestosa e drammatica del film e l’allure della serie sulla giovane Elisabetta) il regista può assumere il contesto storico come acquisito, e concentrarsi sull’introspezione del suo protagonista, sulle sue debolezze e sulle forze che lo pressano e alle quali oppone ostinata resistenza. In questo gli da man forte un grande Gary Oldman in un’interpretazione che ha poco a che fare con la mimesi, ma molto con il modellare un travestimento servendosi di particolari fisici e psicologici più che dei tratti somatici. Tu stai lì a guardar questo panzone alcolizzato e zoppo, che insiste a prendere a cornate il mostro dei mostri e intanto non fai che pensare che sotto quegli occhi azzurri c’è il sadico sbirro mangiapastiglie di Leon. Meraviglia.
Al di la di questo exploit però il film non riesce mai a superare la sua dimensione di “dietro le quinte” di qualcos’altro. Anche probabilmente per una certa timidezza del regista, che sembra non trovare un tono chiaro a cui affidarsi. La maggior parte della vicenda è raccontata dai grandi protagonisti della Storia: Churchill, Chamberlaine, il Re, l’ombra di Adolf Hitler; per scavalcare tutto questo gigantismo e permettere allo spettatore di avvicinarsi, il regista adotta il punto di vista della giovane segretaria, che si infiltra nelle segrete stanze e riflette la percezione che il popolino ha dei suoi leader e della guerra in generale. Allora poi perché infilare quella scena in metropolitana che esaspera così tanto la già alta retorica della pellicola? Fino a quel momento il film funziona anche piuttosto bene, gli eventi e il ritmo giustificano il tono eroico e testardo cavalcato fin lì, ma quella scena – che arriva a venti minuti dalla fine – è qualcosa di troppo, che ti pone dei dubbi e ti fa riconsiderare il giudizio generale, come un dolce troppo pesante alla fine di una ricca cena. È un po’ come se da lì si rinunciasse ad assegnare al film una propria identità e ci si accontentasse del suo ruolo di episodio complementare a qualcosa di già raccontato altrove. Questa mancanza di incisività finisce per schermare anche l’enorme carisma del Churchill “guida della nazione”. Nel film si batte molto sull’influenza della propaganda e sull’importanza decisiva che le parole del Primo Ministro hanno avuto, addomesticando la realtà e celando ai sudditi la gravità degli sviluppi bellici, per non demoralizzarli e per infondere loro speranza.
Però della forza di quei discorsi non c’è quasi traccia, il racconto si sofferma molto (e in modo anche convincente) sulle dinamiche politiche che serpeggiavano in quei giorni, ma il vero pathos arriva da quello che lo spettatore sa per averlo visto in Dunkirk o per averlo imparato da altri media.
Il finale è emblematico di questa insicurezza. Di tutti i discorsi che hanno reso proverbiale la retorica di Churchill, “We Shall Fight” è il più famoso e – ormai – il più scontato. Nel finale di Dunkirk, Nolan incarica i due giovani superstiti di leggere dal giornale le parole del loro leader, con questo accorgimento salvaguarda il mito di quel messaggio frapponendo una distanza tra la voce che lo pronuncia e i cuori che vuole raggiungere. Sentire ripetere le stesse frasi, parola per parola, in un contesto decisamente meno drammatico e potente come il finale de L’Ora Più Buia, le indebolisce e indebolisce tutto il resto del film, confermandolo in una dimensione minore.