16 giugno
Va detto che i fratelli D’Innocenzo si firmano proprio così: “Fratelli D’Innocenzo”. Va detto che da qui in poi potete fare voi tutte le similitudini e le associazioni che vi vengono in mente: coi Dardenne, coi Vanzina, con le Kessler, come vi pare.
Va anche detto, allora, che questo film ha molti padri. Si inserisce in quel filone di racconti delle nuove periferie, specialmente romane, che negli ultimi anni ha visto capitoli illustri in Non Essere Cattivo (Caligari, 2015) e in Cuori Puri (De Paolis, 2017). Pur non raggiungendo quei livelli, La Terra dell’Abbastanza racconta con lo stesso vigore una storia diversa, quella di due ragazzi senza arte nè parte, due quasi ventenni come tanti, che finiscono le serate mangiando kebab dentro a una panda piantata in un campo sportivo. Sono i figli illusi di genitori arresi, facce pulite e lingue sporche, guastate da un vocabolario coatto, ridotto al ripetersi frusto degli stessi insulti, ribadito da un contesto che si fa sempre più stretto e li costringe a sogni piccoli e a respiri corti, un’asfissia ben rappresentata dalle inquadrature anguste: primissimi piani e dettagli fuori fuoco, all’inseguimento di un verismo cinematografico che si approssima e si allarga in direzione contraria al dramma che osserva. Un po’ Dardenne e un po’ Haneke, vien da dire.
Mirko e Manolo, che una cosa brutta non gli è capitata mai, quando gli capita imparano che le lezioni di malavita sono solo un’occasione per svoltare, solo un altro modo per lasciarsi alle spalle quel piccolo mondo stretto, dove tutti fanno i camerieri in cucine ingombre di Roma e di Lazie.
L’importante è non pensarci, e sfogarsi viziando i propri cari nell’inganno di sentirsi ragazzi migliori.
La ricerca e la mancanza di questa consapevolezza è l’ago della bilancia tra la condanna e l’espiazione.
Si inventano fratelli inopportuni e giocano con vite non loro mischiati nell’internazionale del crimine, e tra bassa manovalanza e rifornimenti alle battone vedono seccare le loro tenerezze, e allontanarsi ogni exit strategy. Scoprono che anche quel mondo lì si stringe al collo, e che a loro tocca solo soffocare, soffocare.
La Terra dell’Abbastanza suona un’impressione di pienezza senza sazietà.
Di più non si può ma ancora non basta.
I “fratelli d’Innocenzo” sanno quello che gli piace, e anche se non riescono a riempire del tutto i novanta minuti del loro film, riescono a tirare fuori dei momenti davvero forti, intensi, di una sincerità bruciante, che per descriverla bene ci vorrebbe un aggettivo con la rabbia di “atroce” e il peso di “addolorata”, in quei momenti c’è tutta la bellezza di un’opera prima non ancora matura ma che fa ben sperare.