Il Prigioniero Coreano

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il prigioniero coreano

24 aprile

Il prigioniero coreano è un pescatore strappato a una vita buia e frugale quando il caso spinge la sua barca guasta alla deriva, dalla Korea del Nord a quella del Sud.
Passata malauguratamente la frontiera, è preso in custodia da un giovane e delicato funzionario di sicurezza e da un inquisitore aspro e velenoso, che lo interrogano e lo trattengono al fine di verificare la genuinità della sua posizione. Spia o non spia, occorre quantomeno sondarne la volontà alla ricerca di qualche esitazione che lo possa tradire o, eventualmente, spingerlo a disertare.
Le guardie si adoperano per promuovere lo stile di vita moderno e capitalista di cui vanno orgogliose, e non si capacitano di come il povero Nam Chul-Woo resista alla tentazione di lasciarsi alle spalle una vita grama e un mondo chiuso da un regime capace di invadere ogni momento, anche usando gli oppressivi cartelli che suggeriscono alla popolazione cosa pensare.
Al supposto lavaggio del cervello comunista, i sudisti oppongono una cornucopia colma di golose merci e luci colorate; nel tentativo di forzare le difese dell’austero ospite, arrivano addirittura a smarrirlo in una di quelle strade affollatissime di negozi e acquirenti lasciandolo in balia delle lusinghe consumistiche. Tutta fatica sprecata, poiché l’obbligato turista pare sinceramente attratto solo da bisogni basilari, come il cibo, che ogni volta divora avidamente, o il sesso, che in casa sua consumava con la moglie nella poca intimità concessa da un ambiente più collettivo che domestico.
Le insistenti avance dei funzionari del Sud esasperano la situazione fino al maturare di un incidente diplomatico che li costringe a restituire il malcapitato ai vicini del Nord.
Tornato in patria il povero pescatore si trova ancora prigioniero di un apparato diffidente e arcigno, ansioso di trarre vantaggio dalla visibilità della vicenda.
Kim Ki-Duk ritorna a parlare di politica e attualità in un film che vive sostanzialmente su un’idea forte ma che, come il suo protagonista, non riesce a liberarsi e a respirare. Delle due ore scarse trascorse in sala, la prima sembra ne duri almeno tre. Non so dire cosa sia a incepparsi continuamente, forse la debolezza di una trama incerta, spesso disposta a mettersi da parte per lasciare spazio alle situazioni proposte. Situazioni indubbiamente incisive, che espongono la visione del regista in modo nemmeno tanto indiretto. Pur riconoscendo la natura asfissiante del Regime del Nord, la sua critica risulta ancor più corrosiva verso la Repubblica del Sud e il suo stile occidentalizzato, che nell’irresistibile omologazione raggiunge risultati altrettanto alienanti.
Il messaggio politico è chiaro: la riunificazione delle due Coree è un percorso ormai obbligato, ma a beneficiarne saranno solo le generazioni più giovani e più ingenue, e solo se riusciranno a sfuggire all’aggressività delle ideologie.
Chi invece è stato infettato dalla propaganda è ormai spacciato: da una parte e dall’altra del confine le loro anime sono agitate da paranoie e riflessi condizionati, cori e slogan imparati a memoria e rovesciati con furia appena vengono meno le argomentazioni.
La poetica di Kim Ki-Duk non è certo materia particolarmente fine, la scelta di certe soluzioni può apparire magari un po’ naif, ma il bersaglio è sempre colpito in modo energico e preciso. L’ostinazione del protagonista a non voler aprire gli occhi sul mondo del nemico, la scena in cui il pescatore si sveste dei doni ricevuti per poi trovarsi vestito solo della sua bandiera, o quella sfacciatamente fetida del rinvenimento dei soldi, restano indubbiamente nella memoria; come però ci resta la caratterizzazione troppo ingenua degli apparati di ambo le parti, che in modo del tutto inverosimile preferiscono alla Ragion di Stato una Morale poco realistica (forse filtrata e desunta da opportunità pratiche della produzione?).
In conclusione un film dalle diverse qualità: sincero, crudo, e a suo modo coraggioso; ma anche indubbiamente stancante, per il prolungarsi di situazioni ripetute che rendono bene la frustrazione della prigionia ma che magari lo spettatore non meriterebbe.

 

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