8 marzo
Quando partiranno i titoli di coda, probabilmente vorrete restare ancora un po’ in sala.
Sarà difficile lasciare quella bolla preziosa e magica che per centotrenta minuti sospende la realtà e ipnotizza i sensi, chiudendo il mondo fuori e riempiendo l’animo di una bellezza struggente che per giorni cercherete di ritrovare, magari perdendovi nella sublime colonna sonora di Jonny Greenwood.
Capire a fondo il perché di tutta questa bellezza sarà altrettanto difficile.
Pur riservando il suo veleno per la coda infatti, la storia di un uomo di successo che intreccia una relazione con una donna più semplice e molto più giovane, non è certo nuova.
Tutto accade nella Londra del primo dopoguerra, tra gli ultimi bagliori coloniali che illuminano la fulgida decadenza di una società malinconicamente legata alle convenzioni e apertamente devota alle raffinatezze riservate alla sua élite.
Di quel bel mondo Reynolds Woodcock è il sarto più richiesto e celebrato, la sua Maison veste le stelle più brillanti dell’alta società: principesse, celebrità, ricchissime signore sull’orlo della disperazione.
Forte del suo carisma esclude chiunque dalla sua vita privata attraverso regole precise e oscure che lui detta e che nessuno può discutere. Un prestigio conquistato osservando devozione assoluta al mestiere, fedele a una cura maniacale connaturata al suo vivere che ne compenetra lo sguardo e i gesti.
Per affinare e per non disperdere il suo talento scandisce le giornate secondo una rigida routine e spartisce il fardello di questa perfezione con la fidata sorella, a lui complementare per gusto e unica che possa davvero avvicinarlo. I due condividono il ricordo dell’amata madre, morta da tempo, che ispira il genio di Reynolds e lo spinge a nascondere nelle sue confezioni piccoli e ricercati segreti, ciocche di capelli, vecchie fotografie, invisibili frasi ricamate che infondono uno spirito e un carattere esclusivo ai tessuti che tratta e cuce con passione.
Al radicale isolamento emotivo non fanno eccezione nemmeno le donne, corteggiate sedotte e amate, ma mai spogliate, perché lui le donne invece che spogliarle le veste, ne esplora carezzandolo il corpo in pollici, inseguendo ogni curva, per incartarle infine tra mille premure in costumi magnifici che anziché coprire, esaltano le finezze e svelano armonie e i riflessi dei tratti. Di certo i suoi non sono semplici abiti, ma baci in bocca, lunghi e caldi, e come tutti gli atti d’amore devono essere meritati.
L’incontro con la giovane cameriera Alma, tutt’altro che sprovveduta nonostante i modi semplici, gli offre da principio l’opportunità di esercitare il consueto rituale del pigmalione che con fascino istruisce l’acerba compagna, ma il carattere deciso di lei tende a un destino forse scritto nei loro nomi.
In fondo l’austero Woodcock, lacerato dal ricordo della madre e quasi succube della sorella, desidera, come molti, essere nuovamente accudito, perdersi in un abbraccio sincero, gratuito, abbandonarsi a un amore infantile che si opponga ai ruoli stabiliti.
Il gesto di toccare un tessuto per riconoscerlo è un gesto antico, istintivo, col quale saggiare le qualità che alla sola vista possono sfuggire. Allo stesso modo questo è un film che pretende attenzione da tutti i sensi.
Il tatto è attivato dalle stoffe che corrono sulla pelle, dagli aghi che le trafiggono e le cuciono insieme; dal legno, la carta e il cuoio retti da mani sempre presenti, le stesse mani che stringono e guidano, e poi cucinano ingredienti polposi per piatti dai sapori ricchi e grassi che liberano profumi che stuzzicano sia il gusto che l’olfatto, a sua volta evocato dal fine naso della sorella Cyril.
Se P.T. Anderson si affida a scaltri stratagemmi per innescare i tre sensi difficilmente raggiungibili dal cinema, si dimostra assai prodigo nel distribuire generosamente suggestioni acustiche e visive superbe. Imbastisce un impianto audio che coinvolge ogni aspetto della trama in un fiorire di suoni, musiche e intonazioni che si intrecciano nella rete di effetti ambientali in un tappeto sonoro compatto, concreto e presente quanto un paesaggio reale, formando durante la visione uno scudo imperforabile dalle interferenze esterne.
Ogni passo risuona negli elegantissimi interni come tra le panche di una vecchia chiesa. La quiete e la pulizia ricercata dai raffinati sarti è incrinata dalla spontaneità della rustica cameriera che infrange la sacralità dei rituali con innocenti e goffi rumori.
In quei momenti sagaci emerge l’eterno gioco delle contrapposizioni a sottolineare la distanza tra due anime che si sono scelte e che scoprono di essere legate da un indefinibile filo nascosto che non può essere svelato o ritratto, ma solo immaginato.
Un mistero invisibile che si confonde ancora in un velo di scintillante pulviscolo biondo così materico da poterlo respirare. Foschia che ghermisce la luce e ne ruba per sé, restituendo la grana di una fotografia che insidia visioni che rimandano al Barry Lyndon di Stanley Kubrick.
Sta ben attento a non smuovere troppo questa polvere incantata chi indossa i panni degli amanti difficili, interpreti finissimi di istinti contriti, campioni di misura. Un’unica lite, domestica e tenera, irresistibile. Poi mai uno scatto, una scenata, una smorfia fuori posto; ogni gesto è misurato al centimetro, ogni imbarazzo può strappare l’ordito.
Le figure sono spesso colte da sole, al centro di una stanza che cercano di riempire coi loro corpi, o appoggiati a poltrone, distratti da effimere conversazioni mentre i loro occhi cercano altrove. Dentro di loro forze giganti e errabonde si agitano irruente.
Di certo qualcuno potrà soffrire una certa lentezza nel racconto. Che dire loro? Una lentezza c’è, ma è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la pigrizia o l’ignavia, è piuttosto qualcosa che ha a che fare col tempo, quello che passa e quello che ci vuole per far succedere le cose. Quello che attraversa tutte le vite e da tutte le vite é attraversato. Chiedete loro allora di aspettare qualche giorno, per scoprire quali sedimenti siano rimasti dopo un’esperienza comunque rara.
Perfettamente naturale e insieme assurdo che a coronare questa delizia sia arrivato un solo Oscar. Ai costumi, of course.