The Square

il

the square (2)

12 novembre 2017

Palma d’Oro a Cannes 2017.
Anche NO.

Che questo film puzzasse di chiavata era evidente, mi sono fidato della Elisabeth Moss, una che ha fatto Mad Men e The Handmaid’s Tale non poteva sbagliare copione, e in effetti viene da chiedersi cosa ne sarebbe stato senza di lei e senza quella canaglia che ha fatto The Wire.
Invece, al di là degli strilli in locandina, più volte durante questi lunghissimi centoquarantacinque minuti, il premio di Cannes sembra essere più che altro un riconoscimento tardivo ai lavori precedenti del regista (in particolare all’intrigante Forza Maggiore).
Il protagonista si chiama Christian (e basta), è il curatore dell’ X-Royal Museum di Stoccolma (?), e fra poco deve inaugurare una mostra il cui pezzo forte è questo fantomatico quadrato entro il quale – come in un pentacolo – si dovrebbero concretizzare il senso di fiducia e di solidarietà verso il prossimo, sensibilità la cui mancanza viene ribadita dalle infinite sequenze di mendicanti spinti ai margini e lì dimenticati.
A pochi giorni dalla mostra viene fregato come un pollo e derubato dei soldi e del telefono, per recuperarli si affida al gps, e pensa bene di stalkerare il condominio sospetto attraverso volantini intimidatori, con l’intenzione di stanare il reo stuzzicandone il senso di colpa e smuovendone la coscienza.
(forse perché a lui Grossi non gli ha mai portato via la macchina da sotto casa)
Preso dal trambusto delle sue faccende private, perde il controllo dell’organizzazione della mostra, e viene travolto dalla campagna di marketing che una spregiudicata agenzia mette in piedi per drogare l’attesa.
Tutto un pretesto per ritrarre una Svezia ridotta a uno stato irrimediabilmente trafitto e corrotto da linee razionali e ammuffito dall’abuso di materiali organici, abitato da intellettuali col bicchierone che si perdono in speculazioni così politicamente corrette da lasciarli impietriti davanti alla minima provocazione.
Dicevano fosse una satira sul mondo delle gallerie d’arte ma non mi sembra proprio, quella che viene presa di mira è piuttosto l’ipocrisia con cui le élite attraversano questi tempi scivolosi standosene al sicuro in torri d’avorio costruite su false sicurezze e sull’illusione di evitare il più possibile il contatto (e il contagio) con il prossimo.
Delle mezze parole che ho letto prima di vedere il film, “Glaciale” è l’unica che mi trova d’accordo.
La sceneggiatura è composta da una serie di j’accuse ripetuti in maniera così insistita da schiacciare il racconto sotto uno strato troppo celebrale per poter permettere alla storia di respirare.
Sì, ci sono diversi momenti divertenti che strappano risate, e in diverse altre scene si apprezza una ricchezza di mezzi e di cura che porta a immagini molto suggestive: come la sequenza dei rifiuti o le inquadrature sui “mendicatti”, o tutta la parte del Pensatore di Rodin tramutato in uomo scimmia, però si tratta di colpi brillanti, isolati e isolabili da un contesto freddo. Soluzioni da mestierante piuttosto che da autore, e infatti tutto quel ghiaccio non si scioglie e il film non si libera, non si spiega e non arriva mai.
Si tratta di una critica della società? Sì.
Si tratta di una satira? No.
Quello che resta è una riflessione cinica fatta dalla poltrona, che magari potrà anche essere la poltrona scomoda di un dentista, con tutto il fastidio del suo trapanino nelle orecchie, ma resta una poltrona. Troppo comoda.

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