Nico 1988

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nico 1988

31 ottobre 2017

Facciamo finta che, come me, abbiate solo una vaga idea di chi fosse Nico, tipo che sapete di lei solo che era bellissima, che era intima di Lou Reed, e che ai tempi della Factory di Warhol faceva girare la testa a parecchia di quella gente che poteva disporre di un ampio spettro di relazioni e di esperienze.
Questo film, di quella Nico lì non racconta nulla.
Come la sua protagonista anzi, rinnega gli anni ruggenti e presenta una donna a pezzi, alla ricerca disperata di un’identità che la riconcili con un mondo interiore popolato fin dall’infanzia da spettri e mostri, che se ne fotte di essere stata una dea e si ribella all’immagine di sé negli occhi degli altri. Perché ciò che l’ha resa un’icona di trasgressione e libertà la condanna al fallimento come madre, i ricordi gloriosi immaginati dal suo pubblico sono le catene che l’imprigionano da adulta.
Per liberarsi si affida a due strumenti: un registratore col quale stanare suoni primordiali, nascosti nel rumore bianco del mondo cosciente, e un astuccio con le siringhe e l’eroina per silenziare quel rumore che la stordisce e la confonde.
Parigi, Manchester, Roma, Praga: tra il 1986 e l’88 Nico gira l’Europa per il suo ultimo tour con una band improvvisata, in cui ciascun membro è alla ricerca di una spalla ma resta geloso della propria solitudine. Tappa dopo tappa ognuno cerca di raggiungere ciò che desidera o di scappare da quello che lo spaventa. Una brigata punk che i drammi e l’avventura forgeranno in una specie di famiglia sparecchiata, piatti sporchi e bicchieri svuotati di chi ha comunque mangiato insieme e brindato a un attimo irripetibile.
Spiace dirlo, ma tra queste intimità condivise e mischiate si nota lo scarto di tecnica e versatilità tra gli attori europei e i caratteristi italiani.
La Nico di Trine Dyrholm è impressionante nel farsi attraversare dalla tempesta emotiva che la frusta e la scaccia irriducibile da ogni quiete. Nei suoi occhi l’ostinazione di sconfiggere il pregiudizio si alterna improvvisa alla disperazione della sconfitta. Sgomento e lampi abitano un’attrice che si svuota di sé per farsi tramite di una forza rabbiosa domata solo a tratti e solo in apparenza. Sotto di lei ma insieme a lei, altri attori portano in dote personalità credibili e prove convincenti, l’aplomb del manager inglese o la dolcezza della violinista. Non gli italiani però, per i quali sembra sempre più importante portare la loro faccia e il loro nome, preferire l’attore al personaggio; nei loro occhi c’è forse più calore che in quelli dei colleghi ma si tratta di un sentimento sempre uguale, trasversale a ogni interpretazione e incapace di farsi da parte per mostrare di volta in volta il vuoto o lo smarrimento.
Un’impronta locale che per quanto stonata trova una sua dimensione sia nel racconto (grazie alla tappa italiana), che più in generale nella produzione Rai e nella regia di quella Susanna Nicchiarelli di cui si ricorda con piacere Cosmonauta (correva l’anno 2009).
Sinceramente date le premesse e il battage mi aspettavo qualcosa in più da questo film, un po’ più epico forse, magari un po’ più sporco, ma considerati tutti i limiti della sua italianità non si può non riconoscere l’ottimo risultato di una biografia accorata e centrata, che invece di perdersi in didascalie scontate, suggerisce spiragli dai quali accompagnare almeno con lo sguardo un’artista tormentata e generosa che fino all’ultimo si è sforzata di non farsi rinchiudere nelle gabbie degli altri e di se stessa.

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