26 ottobre 2017
Manifesto è stato forse l’appuntamento più mainstream del Biografilm 2017, perché interpretato da una star premio Oscar e perchè le attenzioni sembravano concentrarsi sul Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels.
(o almeno così avevo capito io)
Nelle sale è uscito all’inizio di questa settimana come primo episodio di una serie di documentari che il distributore (bolognese) I Wonder Pictures propone per raccogliere otto film che da soli avrebbero avuto una difficile diffusione.
In realtà si tratta di un lavoro molto più complesso di quanto potesse inizialmente sembrare.
Il Manifesto è una forma letteraria che dalla metà dell’Ottocento si impone come standard per dichiarazioni programmatiche di gruppi di intellettuali che si riconoscano in una corrente e ne vogliano definire principi e confini.
Il videomaker Julian Rosefeldt ha raccolto e studiato alcuni di questi documenti tra i più celebri o rappresentativi, li ha rielaborati estraendone e ricucendo tra loro dei brani e racchiudendoli nelle scene di una videoinstallazione che dopo aver girato il mondo nell’ultimo paio di anni, viene infine adattata alla forma cinema.
A volte si sente dire che “quell’attrice è così brava che potrebbe recitare l’elenco del telefono”, in questo caso Cate Blanchett ribadisce la sua natura semidivina incarnando i dodici (più uno) personaggi dei rispettivi episodi che la vedono di volta in volta trasformarsi nell’aspetto e nella voce per impersonificare lo spirito con cui Rosefeldt trasmette le varie correnti artistiche/filosofiche/politiche.
Da barbone rovinato a premurosa insegnante, da affusolata boss aziendale a madre stucchevole, da coreografa tutta spigoli e nevrosi a scoglionata operaia sovrappeso, ogni prova è superata con un talento e una classe che hanno in pochissime, al servizio assoluto di esposizioni appassionate in cui la sua figura viene avvolta dai versi di Marinetti, Kandinskij, Tzara, Lars Von Trier, Breton and many more..
Per l’elenco dettagliato delle correnti e dei Manifesti vi rimando al link wikipedia che lo riprende dai titoli di coda, sta di fatto che tra tutti questi, quello di Marx/Engels ne costituisce solo il prologo e la chiosa. Se la cornice dell’opera può quindi considerarsi politica, il discorso principale si sviluppa attorno alla creatività in senso lato e a quelle forze che spingono l’artista a interrogarsi sul senso di ciò che fa e su quale direzione imprimere alle fatiche del proprio intelletto.
Nei Manifesti gli autori si concedono dichiarazioni categoriche, spesso anche di una certa violenza, giudizi netti che tradiscono la foga di essere riconosciuti per qualcosa di “altro” rispetto a ciò che li ha preceduti, e a volte la rabbia verso un contesto che vogliono superare e dal quale vogliono distinguersi.
Le frasi scelte, sbriciolate e ricomposte le une accanto alle altre, compongono un coro disordinato e chiassoso: c’è chi ucciderebbe il chiaro di luna e chi profetizza la morte dei borghesi, chi vuole demolire ogni senso compiuto e chi si impegna a liberare la bellezza in ogni cosa. In molti casi è quasi imbarazzante pesare alla luce della Storia certe ingenue velleità, è evidente soprattutto la difficoltà nel voler sintetizzare e formalizzare afflati nati da un’ispirazione, e di fatto definibili solo col senno di poi.
La riflessione che nasce sul Manifesto come mezzo e sui messaggi che veicola, svela aspetti eterni (everlasting è forse il termine più ripetuto) e slanci comuni in chi si è prodigato attraverso le decadi nel tentativo di liberare energie creative fragorose, combustibili e propellenti per alimentare il processo di rottura di un contesto coevo che in un modo o nell’altro deve comunque averli germinati.
Accettare, allora infine la condizione di subalternità a un crogiuolo di stimoli e influenze? O insistere col rifiutare come conformismo ogni parvenza di schema, in canoni destinati a essere smentiti e traditi nel momento stesso in cui vengono fissati nell’inchiostro?
La modalità frammentata e la densità dei temi sollevati non rendono Manifesto un lavoro facile da seguire, l’impronta dell’installazione artistica è evidente e preponderante in un film che non racconta una storia ma vuole scuotere delle sensazioni e ottenere suggestioni attraverso situazioni stranianti e immagini raffinate.
Purtroppo non tutti gli episodi raggiungono la qualità necessaria a far germogliare queste idee nello spettatore.
Se alcuni risultano infatti decisamente riusciti, vuoi per una sottile ironia, vuoi per invenzioni stilistiche indovinate, in altri prevale la pesantezza e la complessità dei temi trattati.
Un film faticoso, dunque, e personalmente le cose difficili e pesanti mi piacciono, ma in tutta sincerità non saprei a chi consigliarne la visione; confesso di aver fatto fatica – almeno all’inizio – a tenere gli occhi aperti, e probabilmente a molti il film non piacerà. Distribuito in inglese sottotitolato, è ricco di frasi dense di concetti complicati che richiedono attenzione e spingono verso riflessioni e confronti tra l’una e l’altra corrente. Persone particolarmente colte potrebbero apprezzare il citazionismo e perdersi nel gioco di riconoscere gli originali da cui i brani sono tratti. Un processo affascinante che però rallenta la fruizione delle immagini che per la loro ricercatezza meriterebbero tanto quanto.
È comunque un’esperienza che qualcosa lascia e smuove, soprattutto se si sta attraversando un periodo in cui ci si confronta con il processo creativo e sul senso che si vorrebbe dare al proprio lavoro.
(come questa recensione che non volevo nemmeno scrivere, tanto il film non è più in sala, e invece..)
Sembrava il film più noioso e ostico di quelli visti ultimamente, ma forse dentro c’è tutto quello di cui avevo bisogno.