L’Ordine delle Cose

il

lo stato delle cose

7 settembre 2017

ovvero: what we talk about when we talk about Libia

Si comincia in Veneto, vicino Padova, dove Corrado Rinaldi vive la sua vita da ricchi nella sua casa perfettina, con tutti i sui mobilini perfettini, per la sua famiglia perfettina. (Tutti tra l’altro con un accento fastidiosissimo). Un acquario freddo e lontano da quello che Corrado fa per guadagnarsi la paga.
Ex nazionale di scherma, Rinaldi è un poliziotto giaccacravatta e fa parte di una task-force incaricata di gestire i flussi migratori trattando con chi può strozzarli nei paesi di origine. In effetti è uno che mette a posto le cose, ma no come Mr.Wolf, lui mette proprio a posto le cose: gira il tappeto, drizza il tovagliolo, sposta il tavolino.
Insegue geometrie precise che vede solo lui e non gli piace per niente quando le cose sgabbiano dalla traiettoria concordata; non è che sbrocchi o s’incazzi, però s’impegna parecchio per riportarle nel loro ordine.
Adesso gli tocca di farlo nel casino della Libia, dove il Governo Italiano – che ha fretta di chiudere i rubinetti da cui si rovesciano i barconi – lo manda a caccia di risultati “notiziabili” (da spendere cioè in campagna elettorale).
Allora si va al mare coi colleghi a indovinare le sabbie su cui stringere accordi untuosi e fragili tra criminali mascherati da miliziani e trafficoni vestiti da ufficiali.
Odi tribali e avidità sfacciate ostacolano ogni tentativo di riuscita ma Rinaldi è l’uomo giusto per superare le difficoltà e soddisfare le direttive dei superiori.
Studiando il terreno, trova il modo di sfruttare le debolezze dei rivali e di piegarli alle richieste dei capi, anche grazie al fiume di soldi che l’Unione Europea è disposta a pagare.
I flussi rallentano e le cose sembrano funzionare, almeno finché non ci si impiglia in mani più asciutte e occhi nocciola.
Senza smielate le cose si incasinano, ormai è impossibile concentrarsi solo sui numeri e sui monitor con le freccette senza pensare se sia giusto perseguire il risultato trascurandone i costi umani e le conseguenze. Si arriva così alla fine incalzati dal dilemma sul che fare. Scegliere quello che si è oppure quello che si fa?
L’ambiguità è il filo che percorre il racconto: sono ambigui i protagonisti (cinici ma), ambigui i trafficanti (soldati ma), i politici e i loro sistemi (efficaci ma). Ed ambigua è anche la risposta del pubblico in sala, che nel breve dibattito seguito alla presentazione si ribella anch’essa all’ordine delle cose (in questo caso sintonizzarsi sulle intenzioni del regista).
Machiavelli oppure no la percezione del caos spinge alla paura e alla ricerca di soluzioni frettolose.
Per alcuni continua a restare legittimo mettersi nelle mani di tagliagola amorali pur di arrestare l’emergenza degli sbarchi, per altri occorre aprire gli occhi su come si possa trasformare un carcere tremendo e squallido in un hotspot dal quale avviare pratiche burocratiche. Altri ancora (io per esempio) si chiedono cosa abbiano intenzione di fare gli stessi libici per uscire dal loro inferno.
Il grande merito di questo film è innanzitutto di spiegare e poi di cercare una risposta alla domanda iniziale: di cosa parliamo quando parliamo di Libia?
Partendo un paio di anni fa da un lavoro di indagine curiosa e acuta e senza poter raggiungere la Libia (ma coadiuvato da colleghi e collaboratori in loco), Segre e i suoi fiutano l’aria che tira e intercettano con tempismo bruciante la strategia che Italia e UE stanno realizzando in queste settimane.
Il film mette insieme tutte le parole che i media sputacchiano sulla questione dei flussi incontrollati e – pur lavorando di fantasia – riesce a dare una faccia ai protagonisti dei traffici e una forma a concetti astratti e fumosi che, in assenza di riferimenti, ognuno è libero di interpretare come crede.
Certo, il ritmo è quello che è, e verso la fine ci si stanca un po’, ma grazie a un’ottima scrittura che tocca tanti temi filando via liscia, si raccontano i personaggi e si spiegano le vicende senza bisogno di cartelli o di flashback. (alla luce dei fatti si potrebbe rinunciare anche all’unica didascalia iniziale). Mi ricordavo un regista più pittorico, una fotografia più ricercata e presente, ma in questo capitolo Segre si concede all’urgenza di raccontare una storia importante alla quale tiene parecchio.
Mi aspettavo un film piccolo. Invece no.

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