2 settembre 2017
È tutto vero.
Dunkirk è davvero un gran bel film.
Brevemente il contesto. II Guerra Mondiale, 1940, fine maggio inizio giugno, i tedeschi stanno completando l’invasione della Francia e hanno imbottigliato gli alleati nella spiaggia di Dunkerque, sul versante francese della Manica. Gli Inglesi vorrebbero salvare più soldati possibili ma i caccia tedeschi spazzano le coste e gli u-boot affondano le navi che riescono a salpare. Situazione disperata. Pesci in un barile.
Di solito sono altre le spiagge che vengono raccontate: quelle della Normandia, poco più a sud, ed il movimento inverso delle truppe lanciate alla riscossa. Quattro anni dopo le morti potranno forse avere un altro senso, il prezzo da pagare per sfondare nel fango la breccia della riconquista.
Ma a Dunkirk il massacro si abbatte inesorabile ed impietoso nelle belle giornate di maggio, tra un cielo ed un mare scintillanti e indifferenti al disastro degli uomini.
L’assedio è raccontato da tre prospettive: i soldati inglesi che cercano di tornare a casa, i piloti della RAF che vorrebbero coprirgli la fuga, un padre e un figlio che partono da Dover con la loro barca per contribuire all’evacuazione.
Christopher Nolan mischia le carte ed i tempi delle tre vicende lanciando il film in un ritmo sfrenato, restituendo senza tregua il respiro affannato di chi, certo della sconfitta, cerca di salvare la pelle ma si ritrova spalle al muro, braccato da un nemico implacabile ed invisibile pronto a colpire da ogni posizione e con ogni tipo di arma.
L’epica della Guerra è cavalcata all’arrembaggio, non si indugia in crudezze né si esplorano gli angoli umidi dove l’uomo che perde la ragione si confonde con la bestia.
Lo spirito del film sta nel raccontare la sconfitta attraverso una serie di difficoltà via via più drammatiche, nell’arrivare ad affrontare l’inevitabile dopo la progressiva perdita di ogni speranza ed illusione ma conservando – anche arrivati all’ultima spiaggia – la convinzione di non mollare mai, di ridursi piuttosto all’essenziale pur di salvare il salvabile per poter poi ripartire da quelle sfinite risorse.
Finalmente imbrigliato da un contesto storico che concede poca libertà alla fantasia, Nolan rinuncia per una volta alle derive psico-fanta-sociologiche ma non alle consuete manipolazioni temporali, può così concentrare il suo talento e la sua attenzione sulla dinamica del racconto, ottimizzando la resa di una narrazione avvincente amplificata dalla poderosa colonna sonora del solito Hans Zimmer.
Ne vien fuori un grande film di genere, solido e potente, con pochissime sbavature se non qualche accenno di lirismo nel finale.
A questo punto si potrebbe aprire il dibattito su “quanto” e “come” sia un grande film.
Personalmente lo ritengo ottimo a livello di intrattenimento ma, nonostante l’hype drogato dalla solita pompatissima campagna pubblicitaria, non credo raggiunga la statura del capolavoro.
Per ottenere l’empatia travolgente che contraddistingue la pellicola sono state fatte scelte necessarie ma discutibili. Ad esempio il nemico, tedesco, è noto, ma resta sempre invisibile, in questo modo si accentua la sua pericolosità, negandogli però l’umanizzazione e spostando il baricentro dell’empatia dalla sola parte degli alleati, sgombrando il tavolo da ogni possibile ambiguità o provocazione. Allo stesso modo è stato messo alla porta qualsiasi altro aspetto anche solo vagamente spinoso, come questioni razziali, inevitabili abusi dei soldati, o polemiche di opportunità politica o militare.
Scelte legittime e – soprattutto – funzionali allo scopo che si vuole ottenere, ma che tolgono tutte quelle ombre che nel tempo vengono riempite da discussioni ed analisi a volte anche contraddittorie ma che finiscono per conferire fascino ai film che rimangono davvero.
Ad ogni modo questa personalissima (e non richiesta) opinione nulla può togliere ad un film davvero ben fatto, che ti fa uscire dalla sala con la pancia piena e ti lascia pure la voglia di rivederlo.