9 maggio 2017
Il signor Lorenzo è un avvocato in pensione che vive in un grande appartamento nel centro di Napoli.
E’ vedovo e ha due figli, un maschio e una femmina, coi quali ha un rapporto ormai molto freddo.
Si esprime con frasi ad effetto e pare conoscere ogni profonda verità, a differenza delle persone che incrocia, che tratta con un distacco stanco molto vicino al disprezzo.
Nell’appartamento a fianco si trasferiscono da fuori città dei nuovi vicini: una madre un po’ sbadata, un padre con qualche problema di nervi e due ragazzini che al vecchio Lorenzo ricordano i propri figli ai bei tempi andati. È l’occasione per ritrovare un nuovo vigore e ricominciare a recitare la parte del mattatore.
Quando tutto sembra sistemarsi per un certo verso succede qualcosa che rovescia il tavolo mandando all’aria le apparenze dietro alle quali si celano le vere nature dei personaggi raccontati.
Le tenerezze del titolo sono quelle scoperchiate da questo trambusto, il mollusco vivo sotto la valva, quella parte tenera e indifesa protetta da una corazza costruita col distacco, il cinismo, l’aggressività o l’ironia.
La parte dell’anima che ogni personaggio sotterra in profondità serbando però la speranza che qualcuno possa in un qualche modo raggiungerla anche così insensatamente celata.
La Tenerezza è un film triste girato con garbo da uno che il suo mestiere lo sa fare bene. Racconta una storia interessante e drammatica e tocca tematiche profonde senza scivolare nel melenso.
Purtroppo però è un film che si pone, non dico su un vero e proprio piedistallo, ma almeno su una specie di pianerottolo. Per essere apprezzato ha bisogno che lo spettatore salga quei pochi scalini che lo separano dalla messa in scena. Questa distanza si deve principalmente al tipo di recitazione richiesta dal regista.
Non si può dire che il film sia recitato male, anzi, soprattutto le parti maschili risultano più che convincenti. Renato Carpentieri nella parte di Lorenzo è bravissimo a trasmettere l’orgoglio del vecchio leone e insieme la paura che le sue debolezze vengano smascherate, mentre per Elio Germano non basterebbero tutti i “bravo” del mondo. Il suo Fabio è una foglia al vento che negli occhi passa in un istante dal padre e marito più amorevole al giovane uomo in balia di un’angoscia infinita. Giovanna Mezzogiorno è la figlia stanca di Lorenzo, impiegata come interprete di arabo in tribunale dove è tenuta a tradurre in modo asettico i lamenti degli imputati. Con la stessa mestizia si relaziona al padre, al fratello, al figlio. Sempre sottovoce, sempre schiacciata tra la paura di strafare e quella di non farsi capire. Micaela Ramazzotti per rendere la semplicità e la sottile sottomissione della nuova vicina Michela nasconde il suo fascino e ripete il ruolo un po’ svampito della ragazza di provincia che un po’ ci è e un po’ ci fa.
Bravi tutti certo, ma ogni parte è infine appesantita dalla verbosità dei dialoghi. Ciascuno parla come un libro stampato e nessuno risulta alla fine davvero naturale. Se i personaggi maschili, vivendo di caratteri sopra le righe, possono concedere spazio all’istrionismo senza perdere credibilità, le due figure femminili richiedono uno sforzo in più per essere avvicinate. Questo sforzo crea quella distanza, non si sa se più cercata o più trovata, che solo la buona volontà dello spettatore può colmare.
E’ questa la pecca più evidente di questo film, quel senso di distacco che separa l’autore dallo spettatore, quell’amarezza tutta italiana per cui un film drammatico non può non essere un po’ noioso.