4 aprile 2017
In uno di quei futuri dove gli anni ottanta non sono mai finiti, in una città che potrebbe essere la fusione di Tokyo con New York, i cyborg sostituiscono in molte funzioni gli esseri umani, che a loro volta sono liberi di espandere le proprie capacità fisiche e biologiche innestandosi organi robotici.
Per contrastare tutte le nuove tipologie di crimini che queste premesse implicano, esiste la Sezione 9, una task force mista di uomini e cyborg ideata e comandata dall’alto dallo ieratico Daisuke Aramaki, e guidata sul campo dal Maggiore Mira Killian.
Questa Maggiore è in realtà un corpo sintetico nel quale è stato impiantato il cervello di una giovane ragazza. Il risultato è Scarlett Johansson. Peccato che durante l’installazione qualcosa si sia impallato, che il Maggiore abbia perso la memoria della sua vita precedente e che frammenti di quei ricordi le appaiano come glitch, come veloci bug di un videogioco.
Questo disallineamento, questa sconnessione tra il corpo e lo spirito viene resa dalla Johansson con una recitazione apparentemente goffa: ad una iniziale fissità dello sguardo si accompagnano movenze mascoline, una camminata da bullo ed una postura spesso ingobbita, a suggerire quella sensazione di disagio che il Maggiore sente nella non completa sintonia con il corpo che abita.
Ghost in the Shell quindi, ovvero lo spirito, l’identità che ci rende individui unici, costretto nel guscio di un corpo tecnologico, che nel momento in cui espande le capacità fisiche ci rende al tempo stesso tutti uguali.
Chi prima di oggi non avesse mai sentito parlare di questo titolo, si troverà davanti tutta una serie di temi e di situazioni già viste. In estrema sintesi: Matrix fatto con Scarlett Johansson in un’ambientazione alla Blade Runner.
Ma è bene ricordare che quando si parla di Ghost in the Shell si parla di una delle pietre miliari su cui si è costruito l’immaginario del Cyberpunk. William Gibson, Philip K.Dick, Blade Runner, Akira, Ghost in the Shell. Tutto il resto è venuto dopo.
Questo film è la versione “live action” di un OAV (cioè un film di animazione tratto da un manga) del 1995, da sempre considerato un capolavoro, e ha l’enorme merito di non tradire l’originale restando fedele all’atmosfera e al ritmo, e omaggiandone le scene migliori integrandole in una nuova storia e replicandole in maniera davvero spettacolare.
Di questi tempi siamo sommersi da tonnellate di fantascienza distopica tutta uguale, e questo remake, se condotto male, avrebbe rischiato di perdersi nella mucchia di quei tentativi dalla natura più commerciale che di intrattenimento. Invece qui ci sono dei colpi che valgono la pena, a partire dalla strana recitazione della Scarlett, passando per un’incredibile resa di questa città in cui tutto è vivo e tutto si perde, ed un azzeccato recupero di quel look fatto di neon e di fili e cavi che avvolgono e legano tutto che fa tanto anni ‘80 andati a male.
Tra i tanti pregi, infine, non si può non essere grati per la presenza del grandissimo Takeshi Kitano a fare la parte del vecchio Aramaki. Con la sua musta di sempre, l’ultimo colpo è sempre il suo.