Assassinio sull’Orient Express

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assassinio sull'orient express

4 dicembre 2017

Agatha Christie la leggevo da ragazzino, nei pomeriggi d’estate tra le elementari e le medie, sdraiato sul terrazzo caldo prima o dopo la puntata di Sentieri. Di Poirot non ricordo nulla se non l’arguzia e la quantità di pomata che si passava sui baffi, perciò non sono in grado di dire se questo di oggi sia il remake del film del settantaquattro o direttamente del romanzo del trentaquattro (anno di svolgimento della storia). Quello che è certo, purtroppo, è che si tratta di un remake.
Personalmente Kenneth Branagh mi piace, oltre a essere un buon attore e un regista capace, si dimostra persona colta e sensibile, con uno sguardo deciso orientato al teatro e a quelle sfumature che differenziano una messa in scena riuscita da un passo falso. La dimensione teatrale di questa sua riduzione di Assassinio sull’Orient Express si manifesta appunto chiaramente subito dopo il prologo, dove un Poirot al culmine della sua gloria e in pieno sfoggio delle sue abilità, risolve in scioltezza il furto di una reliquia che coinvolge tre religiosi a Gerusalemme.
Brillante, metodico e inflessibile, ossessionato dalla simmetria e dall’equilibrio, il personaggio di Poirot non si muoverà da questi binari nemmeno dopo gli scossoni che travolgeranno l’Orient Express, il treno Istanbul-Londra sul quale un delitto violento impegnerà il detective più sul piano morale e etico che su quello investigativo.
I sospetti sono una dozzina, ognuno ha un movente e ognuno ha un alibi.
La trama del giallo è talmente celebre da scoraggiare il tentativo di nasconderla, perciò il regista preferisce concentrarsi sugli aspetti psicologici dei protagonisti, accendendo le luci sulle capacità attoriali del suo supercast piuttosto che giocare a fare il burattinaio macchinoso che sfida il pubblico da dietro le quinte.
Dall’innesco della vicenda in avanti, ogni cosa in questo film va come ci si aspetta che vada: vengono presentati i personaggi, si abbozzano soluzioni, si complicano le cose, arriva il colpo di scena e si ricomincia da capo.
Se Poirot si conferma sempre reattivo e infallibile, quasi un “dio d̲e̲n̲t̲r̲o̲ la macchina”, i protagonisti sono fortemente caratterizzati da atteggiamenti, costumi o make-up, e vengono sempre portati avanti tutti insieme, attraverso numerose e ripetitive carrellate, con un’inclinazione al lavoro corale troppo evidente e sfacciata, che svela un lavoro di costruzione e di scrittura più attento a non scontentare nessuno che non all’efficacia della narrazione.
Un senso di eccessiva perfezione che si diffonde anche dalle scenografie ipercurate e dagli esterni, pittorici e visibilmente artefatti, che spesso fanno pensare di essere dentro a un film Disney.
Un’impressione di eccessiva reverenza verso l’opera e i precedenti modelli, e di troppo affetto verso attori e spettatori, che nel complesso diluisce la suspence e l’intrigo e finisce per rendere il racconto pregiato, ma sostanzialmente innocuo.
A poco serve un finale più pulsante, dove si intravedono lampi rabbiosi e qualche morbosità latente; questo film anche quando sbanda resta sempre attaccato ai suoi binari, come il treno che lo ospita, e come Poirot, che nonostante una piccola licenza rispetto al libro, resta turbato ma non sconvolto dal dilemma che lo attraversa.
Piacerà forse agli appassionati dei classici o a chi è in cerca di una carezza, ma se volete un thriller avvincente guardate altrove.

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