09/12/2007
Il regista è Denys Arcand. Con il “Declino dell’Impero Americano” alla fine degli anni ottanta, ci metteva in allarme dai pericoli della decadenza di una società – quella americana – basata su dei non-valori e su falsi bisogni. Con “Le Invasioni Barbariche”, quasi vent’anni dopo, ritrovavamo gli stessi protagonisti del primo film invecchiati e provati dal tempo che passa e dagli effetti di quella decadenza che ha lasciato il fianco sguarnito alle invasioni dei nuovi barbari, genti prive degli scrupoli morali e di quel minimo di decenza che hanno preservato nostalgicamente lo status quo. Oggi viviamo “L’età Barbarica”, il tempo è scaduto. La domanda non è più “dove andremo a finre”?, tutt’al più ci resta da chiederci “dove siamo finiti”? “quando ci siamo persi”? Non c’è più speranza. In poche parole, siamo nella merda fino al collo. Il protagonista è un impiegato, il classico “uomo medio” (utente medio?), maschera indossata sempre più spesso da questa classe di intellettuali delusi che da un po’ di tempo gongola del loro “ve l’avevo detto”. La sua storia è come quella di tanti, di uno che ha provato tante volte a cercare la sua strada, coltivando i suoi interessi, facendosi le sue esperienze, e che alla fine di questo percorso, si ritrova allo sbando, senza riferimenti, senza affetti sinceri, senza prospettive. È depresso e, pur essendo ogni giorno a contatto con persone che vivono situazioni disperate, realmente problematiche, non fa che crucciarsi e lamentarsi della propria condizione. Per sopravvivere, si aggrappa ad un mondo di fantasie che, come morfina, tengono in vita un equilibrio mentale sempre più nudo e infreddolito.
Se ho trovato il primo film un po’ banale, zeppo di luoghi comuni e di discorsi stereotipati, se il secondo rimane invece per me un capolavoro assoluto, capace di commuovermi ed esaltarmi, questo terzo capitolo rappresenta una sintesi quasi matematica.
È un film fondamentalmente divertente, le battute fanno ridere, pur con qualche caduta di stile, restano invenzioni simpatiche e un’ironia amara. Un American Beauty un pochino più ironico, insomma.
Ma ci sono momenti anche molto drammatici, molto umani, certe bassezze sono livide e spietate, senza spettacolarizzazioni.
Una commedia senza speranza.