Fresco Leone d’Oro del Festival di Venezia, il film di Sofia Coppola invoglia lo spettatore alla ricerca di un gusto delicato ma non riesce a saziarlo per via di quell’impalpabilità che lascia scontenti.
Johnny Marco è un attore, diciamo senza arte ma con parte. Vive la sua vita così come porta a spasso la sua Ferrari. Gira in tondo su strade aride e spoglie, circondato dal lusso e da ogni genere di voluttà, inganna l’attesa di un’esistenza fine a se stessa con l’inerzia dorata di un cerchio lento e dolente.
I prolissi sketch inanellati all’inizio del film, riflettono l’esistenza inconcludente del protagonista.
Lo braccano emblematici ed acidi sms, inviati da una coscienza che lo fustiga fino a quando l’ex compagna non decide di parcheggiargli la figlia Cloe in procinto di cominciare il campo estivo. La vicinanza con la bimba, figura angelica sempre immersa nella luce, segna l’occasione di una tregua al “supplizio” da star di Johnny, costringendolo a guardarsi in faccia quel tanto che basta per raggiungere la consapevolezza che ogni vita, persino la sua, necessita di avere un senso. Almeno un po’.
Sofia Coppola gira con mestiere una storia semplice e senza apparenti pretese, a metà tra il cinema indipendente ed il gusto europeo, si affida a immagini estetizzate ed a metafore più o meno sottili per compiacere lo spettatore ed immergerlo nell’ambiente lussuoso e rarefatto dei suoi personaggi. A dire la verità, personalmente, più che il cinema europeo, mi ha ricordato certi lavori di Abel Ferrara, purtroppo, però, senza quella morbosità che mantiene viva l’attenzione e la voglia di guardare. La pecca maggiore di questo Somewhere, infatti, sta nel limitarsi allo sviluppare una morale che, seppur sempre vera e sacrosanta, lasciata a se stessa appare un po’ scontata.