Marguerite viene scippata del portafogli. George glielo ritrova e glielo fa recuperare.
Che culo.
Peccato che questo George non sia un tipo del tutto a casa, bensì un signore di mezz’età un po’ allupato e con la spiccata tendenza a farsi ossessionare dalle cose. Infatti s’invaghisce della “giovane” (almeno più di lui) donna e, spinto dalla routine che lo affanna, comincia a pressare Marguerite per incontrarla. Prende a scriverle lettere, a chiamarla a casa, arriva a bucarle le gomme della macchina. Una volta si chiamavano rompicoglioni, oggi si dice stalker.
In questa escalation di pulsioni, emerge tra le righe il passato impetuoso dell’anziano protagonista, un delitto (o quantomeno un tentativo), le cui ripercussioni pare ne abbiano segnato irrimediabilmente l’esistenza, costringendolo in una condizione di perpetuo controllo. Quest’aspetto non fa che avvalorare la preoccupazione dell’ignara Marguerite che, nel tentativo di liberarsi dello spasimante, si rivolge alla polizia per convincerlo “amichevolmente” a desistere.
A questo punto la trama accusa una deriva che sposta l’attenzione dalla cronaca ad un piano più intimo, modificando la percezione dei personaggi. George passa dall’essere un anziano solitario e tormentato dai dubbi, ad un uomo risoluto, immerso in una famiglia apparentemente perfetta che tuttavia non lo appaga. Marguerite si ritrova da voluttuosa collezionista di scarpe a donna smaliziata, realizzata nella sua carriera odontotecnica.
Lo stravolgimento dei tipi psicologici innesca gli sviluppi di una vicenda che vede Marguerite inseguire in preda al rimorso il vecchio spasimante, a sua volta non più intenzionato a concedere nulla al corteggiamento ma determinato esclusivamente all’appagamento della sua pulsione erotica.
Attratti e respinti da questa continua distanza, George e Marguerite inanellano una serie di situazioni grottesche e sconclusionate che vorrebbero (?) enfatizzare l’irrazionalità del sentimento amoroso creando nello spettatore un senso di estraneamento e di confusione.
In realtà il film annaspa nella sostanza sulla quale vorrebbe galleggiare, perdendosi ed avvitandosi su se stesso fino a trovare un’insperata conclusione nel più scontato dei finali obbligati.
Al termine della proiezione non si può che rimanere perplessi, sfiniti per l’impegno richiesto dal tentativo di decifrare un lavoro del quale è difficile, quanto forse vano, isolare il senso.
Confesso di aver cercato aiuto, concedendomi il beneficio del dubbio per un film che proprio non mi è arrivato.
Ho letto così diverse interpretazioni, indirizzate perlopiù a censire le lodi “dell’ultimo capolavoro del maestro novantenne”. Recensioni che mettono in evidenza “il coraggio di sperimentare” piuttosto che “l’immaginifica fantasia” del vegliardo cineasta in contrapposizione al piattume e al conformismo dei lavori più recenti della cinematografia internazionale. I più arditi arrivano anche ad indicare nell’enigmatica domanda finale (“quando sarò un gatto potrò mangiare i croccantini?”), l’elogio della libertà d’immaginazione che deve prevalere sulla paura di viversi le situazioni e bla bla bla…
Recensioni sulle quali, chiaramente, non sono d’accordo.
Nonostante una colonna sonora impeccabile ed uno stile squisito nella regia e nella fotografia, personalmente ritengo Gli Amori Folli l’emblema di quanto di male si sia sempre detto del cinema francese.
Un lavoro autorale nel senso peggiore del termine, in cui l’autore – appunto – issa se stesso ed il film su di un piedistallo, allontanando il più possibile lo spettatore, che si vede costretto ad arrampicarsi faticosamente su dialoghi imbarazzanti e situazioni incomprensibilmente provocatorie, per poter fruire della lettura di ciò che il regista ritiene di aver capito della vita dall’alto dei suoi novant’anni.
Per questo credo che il termine che più si presti a descrivere questo film sia “senile”.
Senile nel tentativo di psicanalizzare le dinamiche amorose ricorrendo a stratagemmi scontati e simbologie desuete. Senile nel ridurre i personaggi a banali metafore, l’uomo-cacciatore, la donna-preda, l’indecifrabile moglie-mamma, tutti troppo calati nel loro ruolo psicologico per essere credibili (e dunque per potercisi identificare).
Senile nell’atteggiamento del vecchio maestro che elargisce il suo sapere al pubblico con la spocchia di chi getta perle ai porci.
Senile, infine, per il suo infarcire il film di ammiccamenti e distrazioni che vorrebbero sottintendere a piani più profondi e celebrali, che però rimangono sterili ed autoreferenziali in mancanza di una chiave di lettura che non viene mai fornita.
Perché siamo sempre lì. Se l’Arte è comunicazione, e alla fine il tuo messaggio non arriva al tuo pubblico, probabilmente hai sbagliato qualcosa. E se hai novant’anni, forse è ora che ti metti a fare dei gelati invece che dei film.