Marco Tullio Giordana è uno dei pochi cineasti che in italia ancora possano dirsi Autori.
Capace di piazzare negli anni colpacci come La Meglio Gioventù ed I Cento Passi, si scrolla di dosso la ruggine degli ultimi lavori non proprio all’altezza e sembra tornare ai fasti che l’hanno reso celebre.
L’occasione è data dalla voglia di raccontare cosa rimane, dopo più di quarant’anni, della strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano nel ’69, episodio al quale è possibile fare risalire (se non proprio nella cronologia, almeno nell’impatto) l’inizio di quel periodo della storia italiana che sarà ricordato come “gli anni di piombo” o “della strategia della tensione”.
Visibilmente ispirato da fatti che lo toccano in prima persona (da studente ebbe modo di conoscere il commissario Calabresi), Giordana si affida ai “cartelli” per dare ordine ad una trama che appare per forza di cose strappata nei punti di coesione, cercando la strada per raccontare quei punti mancanti e nascosti di una storia cacciata a forza sotto al tappeto dai servizi segreti e dagli organi di governo (allora ?) conniventi di un momento storico feroce e folle.
Un rapido inquadramento storico ci riporta alla memoria l’ambiente politico dell’alba degli anni di piombo, tra la provincia veneta in cui serpeggiano neri eversivi, i nuclei romani dove covano le braci di forze fasciste irriducibili e nostalgiche ed il fervore di una Milano stretta nella morsa tra guardie e ladri, impegnata a gestire e fronteggiare gli ultimi moti del movimento sessantottino e lo slancio alla lotta sociale che ne consegue.
L’esplosione in banca di quel 12 dicembre compie una brutale strage di innocenti che estremizza le tensioni e radicalizza lo scontro spingendo lo Stato fuori dalla tana e costringendolo a colpire alla cieca nel tentativo di dare risposte credibili ad un’emergenza uscita da ogni logica civile e morale.
Il tumulto e l’onda emotiva offrono ai settori deviati dello Stato l’occasione di regolare i conti e di perpetrare abusi finalizzati ad avvelenare il consenso, marginale ma potenzialmente rischioso, che i circoli anarchici stavano raccogliendo. L’inettitudine dei funzionari coinvolti e le resistenze ideologiche proprie delle forze in campo trascinano lo scontro ad un escalation di soprusi rozzi e sprezzanti di ogni decenza pur di mantenere la rotta di una strategia volta a conservare lo status quo desiderato e richiesto non solo dal Governo Italiano, ma anche da quello Americano e dalla coalizione Nato in generale.
All’interno di un cast generoso e in fondo convincente (eccettuando qualche presenza un po’ troppo “televisiva”), i protagonisti del racconto sono principalmente tre: Pinelli (Favino), Calabresi (Mastandrea), Moro (Gifuni), persone che pagano con la morte violenta la coesione alla funzione pubblica che hanno ricoperto, e che la Storia ha trasceso, scavalcando la loro mortalità e rendendoli maschere del ruolo che in vita hanno recitato: l’Anarchico, il Commissario, l’Onorevole.
Questa sfumatura avrebbe potuto essere un valore fondante del film, se ci si fosse concentrati sui significati simbolici della strage e delle persone coinvolte, ma all’occhio di uno spettatore che si sforzi di restare obbiettivo e di capire, la caratterizzazione dei personaggi appare una semplificazione che leva credibilità all’inchiesta e nuoce al tentativo di indagine della verità. Ancor più alla luce del fatto che questo tentativo si lascia ispirare da un libro “inchiesta” (per modo di dire) più volte smentito dagli atti e che fa dell’ammiccamento la sua arma principale.
Nella traduzione che ne fa Giordana, l’Anarchico Pinelli è un padre di famiglia lavoratore e timorato della violenza, coraggioso ed impetuoso ma sempre dalla “parte giusta”, il Commissario Calabresi è l’uomo d’ordine, continuamente combattuto tra il dovere ed il morso di una morale che non può fargli accettare le responsabilità che il proprio mestiere gli impone, gioca dalla “parte sbagliata” ma ha la “fortuna” di non sporcarsi le mani, l’Onorevole Moro incarna l’uomo di Stato che osserva tutto dall’alto, biasima la piega degli eventi atteggiandosi a San Francesco ma al momento di intervenire si sottomette alla Ragion di Stato per non turbare gli equilibri politici cui sente di dover sottostare.
Ma in un paese che non è ancora riuscito a fare i conti con la seconda guerra mondiale, tentare di raggiungere una verità in una vicenda emblematica dell’insabbiamento per “ragion di stato” non può che rivelarsi ambizione proibitiva e, in fine dei conti, deleteria.
Sarebbe forse stato meglio suggerire possibili ipotesi e soluzioni, piuttosto che cercare di dimostrare ciò che non può (più?) essere dimostrato.
Il risultato finale è un film tecnicamente molto buono, girato con talento e che riesce ad essere avvincente nonostante una certa inevitabile frammentarietà, anche in virtù di una trama dettata più dalla cronaca di quei giorni che dal libro da cui trae sfortunata ispirazione.
Un ottimo film, quindi, che nonostante si immerga con coraggio nell’attualità del momento che racconta, resta una testimonianza da prendere con le molle, che non possa essere confusa con un bignami della storia italiana degli anni settanta.