Lezione Ventuno

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Un gruppo di studenti racconta la storia di un eccentrico professore, che racconta la storia di un musicista, al quale bizzarri personaggi raccontano la storia della sera in cui Beethoven presentò al mondo la Nona Sinfonia.
Lezione Ventuno parla quindi di Beethoven. Della Nona sinfonia, in particolar modo di come questa sia passata alla storia come “il capolavoro assoluto” del Maestro, e di come avvenga questo processo di beatificazione delle opere d’arte.
La vicenda, infatti, non viene narrata in modo diretto, ma come attraverso un fitto incastro di specchi e di vetri, ci arriva riflessa dalle parole e dai ricordi di chi ci ha preceduto. Attraverso questi livelli di testimonianze, si cerca di capire quale forma possa assumere nei confronti dei suoi fruitori, un’opera d’ingegno e d’intelletto. Soprattutto se questa non possa risultare in un qualche modo sopravvalutata.
Alessandro Baricco debutta da regista nella trasposizione di un suo romanzo. Encomiabile per le intenzioni e l’impegno, confeziona una pellicola dalla spiccata impronta intellettuale.
Pregevole l’apparato visivo, che ricorda molto il lavoro fatto dallo stesso Baricco per Seta. La cura nella realizzazione dei costumi, e l’attenzione nel rendere i colori umorali dei volti, si aggiungono alla voglia di comporre sempre immagini suggestive e misurate in ogni dettaglio.
Entusiasmante il corredo sonoro, la Musica è la protagonista assoluta del film, insieme alla passione che sa suscitare, e che il regista riesce bene a far trasparire dai suoi attori, scrupolosi e partecipi della formula ricercata dall’autore.
Seppur questi elementi risultino quindi, di buona qualità, l’amalgama finale è un risultato che non riesce ad uguagliare la somma delle parti.
L’intento è quello di invitare a riflettere su quanto ci viene proposto, spogliando “l’opera d’arte” da quell’aura di reverenza che la vorrebbe intoccabile ed indiscutibile.
Per realizzare il suo proposito, Baricco si affida ad un approccio iconoclasta, tentando di usare un linguaggio il più possibile terra-terra per abbattere il piedistallo sul quale la kultura ama issare i propri idoli per allontanarli dalla gente e goderseli gelosamente nella propria torre d’avorio.
Nel suo film, sceglie di cogliere i suoi personaggi/commentatori in atteggiamenti intimi e quotidiani: al pub, piuttosto che mentre mangiano, o mentre si preparano per recitare, inseguendo una spontaneità che, invece, gli sfugge.
La recitazione risulta, infatti forzata, troppo parlata. Finisce col limitarsi troppo spesso a faccette ed ammiccamenti, scadendo molte volte in un linguaggio dal registro più che volgare, stonato.
Il risultato finale è dunque stridente, e nonostante certe brillanti astuzie del regista, non permette al film di essere all’altezza della pur meritevole ambizione, consegnando allo spettatore un’alchimia cercata ma fallita.
Un po’ come disegnare un angelo con una brutta mano.

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