Ho letto da qualche parte che questo film è inutile. “Così inutile che non si può nemmeno odiare”.
Così inutile che Claudio c’è andato due volte a vederlo.
Credo occorra essere ben poveri di spirito per riuscire a non apprezzare l’intento di un regista che dichiara apertamente di voler semplicemente portare un po’ di conforto ad una platea terrorizzata dai tempi in cui viviamo. Come Mediterraneo è dedicato a chi sta scappando, così Happy Family è una carezza sulle guance di quanti sentano irrigidire ogni fibra del proprio corpo al momento d’immaginarsi il domani.
A questo scopo Salvatores mette in piedi il suo teatrino, in cui Ezio, “l’Autore”, cimentandosi nella realizzazione di un suo film (d’autore, appunto), si fa sopraffare dagli stessi personaggi creati, che rivendicano per loro quella felicità che la “vita vera” spesso nega.
Ci vengono così presentati i protagonisti. Da una parte la famiglia di Filippo, borghese e raffinata, con il padre Vincenzo, la seconda moglie Anna, l’anziana nonna Anna, la deliziosa figlia Caterina e il figlio Filippo, un ragazzo…particolare. Dall’altra la sgangherata famiglia di Marta, con il padre anticonformista che si rifiuta di crescere, la madre sempre troppo nervosa, la figlia Marta, squisitamente adolescente.
Ognuno dei personaggi di questo (quel?) film, porta con se alcune delle paure elencate nell’introduzione. La paura di morire, di non essere accettati, di innamorarsi e di non innamorarsi, la paura delle convenzioni, la paura di invecchiare, la paura di viaggiare, la paura di essere gay, o di avere un figlio gay, e tutte quelle altre angosce che un mondo brutto sporco e cattivo c’è riuscito ad inculcare.
Fulcro della vicenda le nozze, ormai prossime, tra i sedicenni Filippo e Marta. Per l’occasione le famiglie dei due s’incontrano per una di quelle cene “per conoscersi”. A questa cena è presente anche Ezio, che, rapito dal suo cast, diventa personaggio lui stesso, partecipando alla vita di un mondo in cui tutte le ansie vengono superate con leggerezza.
Perché Happy Family non si scorda mai cos’è: un film sincero, semplice, neanche troppo lungo, pieno di buonumore, recitato con bravura ed allegria, un’allegria che traspare dalle battute riuscite e arriva nelle gag divertenti.
Seppur coerente con l’intento consolatorio prefissosi, Salvatores non intende però minimizzare le difficoltà concrete di chi con la vita vera ci fa i conti ogni giorno; come fa dire a Vincenzo: “Bisogna dire la verità, la gente non la puoi prendere in giro, nella vita come nei film”. Per questo il regista non perde occasione di enfatizzare e sottolineare la metafora ed il trucco alla base della pellicola, colorandola più che può (prima tutti rossi, poi tutti gialli, poi verdi, poi di nuovo tutti rossi, eccetera…), rompendo il quarto muro (la dimensione che separa lo spettatore dall’attore), citando i suoi riferimenti (Pirandello, Almodovar) così come filma, disseminati nell’appartamento, i riferimenti di Ezio per il “suo film” nella carrellata finale un po’ alla “I Soliti Sospetti”.
Tornando all’infausta recensione di cui vi dicevo, e citandola: “Nei Sei Personaggi di Pirandello, però, la rottura della quarta parete era in sintonia con altre rotture in corso nella società dell’epoca. Qui l’unica rottura è quella del povero spettatore, perché il gioco metanarrativo non è coinvolgente. I personaggi, per lo più macchiette, non dicono niente sull’Italia di oggi.”
Citando, invece, il film: “Ma vaffanculo.”