
24 Marzo 2019
Regia: Mike Leigh
Produzione: Gran Bretagna, 2018 – 154’
Nel buio di una stagione che si fa ricordare più che altro per le delusioni e per la mancanza di coraggio, qualsiasi luccichio porta a sperare in un colpo di coda che regali qualcosa di significativo. Spesso però, chi visse sperando… eccetera eccetera.
Il nuovo film di Mike Leigh ha molte cose molto belle ma non riesce a convincere del tutto nonostante ci provi per ben due ore e mezza.
Nel 1815, alla fine delle Guerre Napoleoniche, dopo la celebre battaglia di Waterloo, il Parlamento e il Re d’Inghilterra (allora ancora Principe in verità) ricompensano lautamente il Duca di Wellington e i suoi ufficiali, mentre la nascente classe operaia patisce la miseria e la fame. Impiegati per lo più nel tessile, gli abitanti dei centri industriali del nord dell’Inghilterra soffrono la depressione conseguente allo sforzo bellico, e in particolare le leggi sul grano, che ne impediscono l’importazione impennando i prezzi degli scarsi raccolti interni. Seppur demograficamente in espansione, queste nuove cittadine sono silenziate da un Parlamento che invece favorisce gli antichi distretti agricoli.
Sulla spinta delle energie liberate dalla Rivoluzione Francese, il popolo è incitato da oratori di professione a chiedere una riforma che porti al suffragio universale (almeno per i capofamiglia).
Le prime due ore di film presentano, e ripresentano (e ripresentano ancora) i punti di vista delle parti in gioco, che sono tante.
Innanzitutto ci sono i lavoratori, che cominciano a coltivare i prodromi di una coscienza di classe accomunati dalle difficoltà. (duecento anni dopo: tutto il mondo del precariato e quella grande parte di classe media che ci sta scivolando dentro)
Poi ci sono i giudici dei tribunali, che amministrano la giustizia in modo vendicativo a difesa dell’ordine costituito, spinti, oltre che da un’intransigente visione classista, anche e soprattutto dalla borghesia, che agisce sulle paghe dei dipendenti per compensare le oscillazioni nei margini di guadagno delle imprese. (duecento anni dopo: i burocrati di Bruxelles)
Poi ci sono i rivoluzionari, che cavalcano il malcontento popolare con comizi drogati di teatralità e retorica, e che modulano le richieste da sospingere a seconda del contesto più o meno favorevole, lasciando trasparire ambizioni personali non sempre in linea con quelle dei lavoratori. (duecento anni dopo: i partiti politici detti “populisti”)
In ultimo ci sono i soldati, il braccio armato del Potere che colpisce in modo ufficiale con l’Esercito, e in modo illegale attraverso milizie paramilitari assoldate dalla borghesia. (duecento anni dopo: stessa cosa)
Tutte le tensioni confluiscono nella mezz’ora finale in cui si segue la cronaca dell’affollata manifestazione che si tenne il 16 Agosto 1819 nei prati di Saint Peter, fuori Manchester.
In quell’occasione, gli organizzatori delle proteste ingaggiarono come speaker il famosissimo oratore Henry Hunt, capace coi suoi discorsi enfatici e accorati di suscitare nel pubblico sentimenti di partecipazione e coesione profondi e robusti. Per rendere la fama e il carisma del personaggio, il regista lo raffigura come un atleta dei giorni nostri, una specie di olimpionico della Retorica, con gli uomini che lo ammirano e le donne che lo sognano: un Cristiano Ronaldo dei comizi, fate finta.
Preoccupati dagli effetti che una simile celebrità avrebbe innescato nella folla, una congrega di giudici e padroni si adoperò per prendere nel sacco i protagonisti delle proteste e insieme colpire i manifestanti così duramente da spegnerne gli ardori. Intrappolati dalla piazza che li raccoglieva, e impossibilitati alla fuga dallo scompiglio delle varie forze armate, centinaia di cittadini inermi accorsi pacificamente con mogli e figli, vennero falciati dalle sciabole dei soldati a cavallo e passati a fil di spada col benestare del Re e delle massime autorità.
Il racconto di Mike Leigh segue un percorso circolare che si apre e si chiude con le disavventure di Joseph, un giovane, figlio del popolino, che all’inizio serve il Regno nella durissima battaglia di Waterloo e che alla fine cade sul prato della ribattezzata “Peterloo”, schiacciato dallo stesso potere che lo aveva mandato in guerra.
I pregi maggiori del film sono nella bellissima messa in scena: luci, scenografie, costumi e recitazione funzionano in accordo e restituiscono alla pellicola un’atmosfera incisiva, conferendole una personalità in grado di distinguerla da altri film in costume. I riferimenti più riconoscibili sono ai dipinti di Vermeer, in particolare negli interni, da cui Leigh riprende le luci e i mezzi toni per evocare l’intimità domestica onesta e frugale in cui il popolo si interroga sulle ragioni delle forze che lo agitano e che lo respingono.
Con una delle più fornite collezioni di brutti denti, afte in bocca e malformazioni varie, anche il cast compone un affresco di personaggi vividi e ruspanti che si fanno apprezzare anche quando, seguendo la sceneggiatura, si abbandonano all’enfasi e la vis retorica richiede di apparire invasati.
Avendo visto la versione originale non ho riscontro su come il doppiaggio possa aver reso i tanti comizi e le varie tonalità con cui vengono declamati, purtroppo spesso lo standard italiano tende ad appiattire un po’ il tutto e c’è solo da sperare che l’eventuale perdita di sfumature non influisca sul risultato finale.
Un altro grande pregio è nelle ricchissime ambientazioni che custodiscono le aspirazioni dei personaggi, borghi brulicanti, filatoi dai ritmi infernali, minuscoli e tristissimi cimiteri arroccati, e vallate verdissime che si aprono sui meravigliosi panorami del Lancashire.
Mezzi toni, sfumature e aperture mancano invece nell’impronta ideologica che il film sposa, e questa posizione forte, quasi prepotente, costituisce uno dei fattori che lasciano un vago senso di insoddisfazione.
Anche se non ci sono motivi per dubitare della ricostruzione storica proposta, e anche se il massacro di Peterloo non è purtroppo né il primo né l’ultimo esempio di abuso di potere e di repressione violenta di una manifestazione, Mike Leigh spinge davvero molto sulla caratterizzazione cinica e crudele di chi si oppone alle legittime richieste dei lavoratori. Il problema non sta nel decidere se quei giudici e quei padroni si siano comportati in modo criminale il 16 Agosto del 1819, il problema è che un film, anche se in costume e anche se ambientato duecento anni fa, ovviamente riflette il tempo in cui viene girato, cioè il presente, e l’urgenza politica che fa scegliere al regista di trattare questo particolare episodio in questa particolare maniera emerge piuttosto chiaramente.
Condivisibile o meno il punto di vista (e personalmente mi ci trovo), l’insistita rappresentazione della crudele superbia dei giudici, della lascivia dell’aristocratici, dell’avidità dei borghesi, contrapposte alla frugalità e al buon cuore dei popolani, l’opposizione anche cromatica (i giudici e i padroni in nero, appollaiati come corvi in attesa dei resti del massacro di una folla di donne vestite in bianco), la differenza tra la pomposità di discorsi gonfiati spesso dal furore religioso e la richiesta di semplicità degli slogan dei manifestanti, tutto contribuisce a spingere con forza lo spettatore a parteggiare per la rivolta. Ma, appunto, quando il film finisce e si guarda all’attualità e ai parallelismi che vengono suggeriti, l’empatia ottenuta sembra voler piegare l’interpretazione del quotidiano a una semplificazione eccessiva, che dipinge la realtà con toni manichei, dividendo tutto troppo sbrigativamente.
È interessante quando un’opera d’arte spinge a farsi delle domande suggerendo riflessioni anche ardite che portino fermento allo spettatore, è meno interessante quando corteggia una qualunque propaganda cercando di imporre dei giudizi.
“indeed”.