
08/02/2019
Regia: Clint Eastwood
Produzione: USA, 2018 – 116′
Se questo film fosse un isotopo radioattivo la sua emivita sarebbe all’incirca di un’ora e venti minuti, il tempo che ci mette lo stravagante diario di viaggio di un anziano irriducibile a liberare la sua ironia prima di decadere in qualcos’altro.
Earl è un vecchissimo fioraio, ormai in quota duecento, che per tutta la vita è scappato dalla famiglia, preferendo frequentare convention di settore in cui scatenare i suoi modi affabili. Nonostante anni di discreto successo, viene come tutti travolto dalla crisi e sepolto da internet, e costretto a licenziare i dipendenti e sbaraccare. Neanche il tempo di svuotare il furgone che inciampa in una strana occasione di guadagno: guidare più di duemila chilometri alla volta per consegnare a Chicago misteriosi carichi per conto di truci messicani. Tutto molto facile per lui: incensurato, innocuo, insospettabile. In una dozzina di corse lo accompagniamo attraversando panorami americani, canticchiando canzoni americane, guidando macchine americane, incrociando la strada con le minoranze americane. “I’ve been everywhere” tamburella sul cruscotto, e Everywhere Earl porta la leggerezza dell’innocente e la sicurezza di chi ha tutto dovuto; un novantenne che ha combattuto e vinto per il suo Paese, la sua terra, e che trova perfettamente normale avere a che fare con lesbiche, negri, e mangiafagioli, come li chiama lui. Perché ecco, per lui il mondo va così: l’uomo bianco ha il diritto e il dovere di difendere la sua posizione e il suo benessere, di aggiustare il tetto, lo steccato, di pagare l’open bar ai matrimoni, di far riparare il circolo dei veterani o la pista da bowling; se per farlo deve trasportare droga, va bene così, se tratta con dei narcotrafficanti va bene così, se paga ragazze che hanno l’età della nipote va bene così. Nella sua testa l’atteggiamento paternalistico con cui tratta le minoranze rappresenta il grado più alto di apertura e di accettazione.
A questo punto, far coincidere il punto di vista di Eastwood autore a quello del suo personaggio sarebbe comunque un grosso errore. In accordo con la sua ultima produzione, caratterizzata dalla scelta di pescare nella cronaca soggetti “realmente accaduti” per proporli come istantanee della società statunitense contemporanea, Eastwood regista mostra i cuori dei suoi eroi, mostra come loro vedono il mondo, e nel farlo cerca il più possibile di estraniarsi.
Certo lo fa a modo suo, certo sarebbe tutto più facile se non gli fosse mai venuto in mente di paragonare Barack Obama a una sedia vuota, ma davvero non si spiegherebbe altrimenti l’approssimazione con cui tratta i risvolti etici dei suoi ultimi lavori. Innanzitutto perché posizioni all’apparenza rozze sono inserite in confezioni formalmente ineccepibili, in secondo luogo perché per primo inserisce elementi contraddittori nell’esposizione. Si scaglia contro il politically-correct, ma non si esime dal far risaltare la volgarità dell’intolleranza, incarna il suo protagonista, ce lo rende irresistibile con la debolezza della vecchiaia, ma allo stesso tempo mette in scena il sovvertimento dei valori che vuole raccontare attraverso il gustoso ribaltamento di specchi dello spacciatore, filippino e omosessuale, che l’FBI costringe a collaborare col ricatto, in una lettura parallela in cui l’americano bianco aiuta il bonario cartello del crimine, mentre è lo straniero discriminato a favorire la giustizia nonostante il braccio cinico della legge.
Già, scordavo di dirlo, ovviamente The Mule è anche un film di guardie e ladri, ma più che altro perché alla fine il vero Earl Stone (Leo Sharp, qui su Terra-Prime) è stato arrestato.
Ecco questa parte, delle indagini, degli appostamenti, delle intercettazioni, è in effetti un po’ tirata via, ma si fa apprezzare perché offre l’opportunità all’Eastwood attore di riproporre la sua faccia scrumaccata che ci mancava da un pezzo.
Si diceva all’inizio che però si arriva a un punto in cui il film esaurisce la sua energia e comincia a spegnersi pian piano, raggrinzendo in una crosta sentimentale un po’ penosa e stucchevole, in cui il vecchio irriducibile prende atto dei propri errori e cerca il riscatto attraverso un bel gesto finale.
Pur riconoscendo a Eastwood la caratura del grande narratore dei nostri tempi, tocca rendersi conto che quest’idea dura a morire, che per l’eroe americano basti un generoso exploit nei supplementari per riscattare una vita di mancanze e di prepotenze, rappresenta purtroppo la scoria indigeribile e tossica del decadimento della sua poetica. Nonostante tutto questo tramontare, in cui è facile mischiare la vecchiaia con lo struggimento, resta sempre qualcosa nella regia di Clint Eastwood che mi fa sempre pensare a qualcosa di massiccio, come il cemento, o meglio alla parola inglese per dire cemento: concrete.
Questa concretezza, questa solidità che persegue, finisce per vincere su tutto, anche sulle magagne di sceneggiatura o sulle scivolate moraliste un po’ francamente senili del finale.
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