16 febbraio 2017
Saroo avrà sei o sette anni. vive in India, in un villaggio di fango e di mattoni ai piedi dell’Himalaya. In casa la madre, un fratello più grande ed una sorella più piccola. L’anno in cui si perde in stazione è il 1986. si risveglia su un treno che dopo due giorni lo porta a 16000 chilometri di distanza, a Calcutta. Da solo, senza parlare la lingua, senza conoscere nessuno, incapace di fornire informazioni per tornare a casa. Saroo sopravvive da vagabondo e mendicante schivando la fame e le millemila insidie di una città velenosa e ostile. Fino a quando non viene assorbito dai servizi sociali indiani, poco più che un canile in cui i ragazzini sono rinchiusi ed educati a bastonate in attesa di essere reindirizzati altrove. I più fortunati possono sperare di essere adottati da qualche famiglia occidentale con l’ambizione della carità. Saroo è tra questi fortunelli, e non gli va per niente male, tipo che lo adotta Nicole Kidman e finisce a vivere in Australia in una villa sull’oceano. Sticazzi.
Saroo dunque cresce e si integra sfruttando al massimo ogni possibilità offerta da questa nuova vita.
Al momento di lasciare il nido familiare e di affacciarsi al mondo degli adulti però, il confronto con gli altri e la necessità di cercare e difendere il suo posto nel mondo lo costringono ad affrontare i propri istinti ed il proprio passato.
Siamo ormai nel mondo di internet, e le nuove tecnologie schiudono a Saroo opportunità e tentazioni per impegnarsi in una ricerca che possa stuccare la crepa aperta nella sua anima dal trauma della separazione. Ma ogni tentazione è scivolosa, e sembra proprio non si possa andare senza lasciare. Saroo dovrà decidere se proseguire nella sua sempre più pressante ricerca del passato, rischiando però di mettere in pericolo il proprio presente.
Dice che è una storia vera, e i titoli di coda ne sono la prova provata. Ma ogni storia può essere raccontata in un modo o nell’altro. In questo caso le materie prime sono buone davvero. Una storia avvincente, un cast importante, location suggestive, soldi da spendere.
Purtroppo però l’impronta che emerge da questo film è quella della didattica.
L’odissea di Saroo è raccontata come su di una corriera turistica, con la quale si passa dall’India rurale a quella della megalopoli, all’Australia eccetera. Cercando di documentare il più possibile, di essere fedeli ai fatti ma senza mai scendere dall’autobus che poi finisce che ti sporchi i piedi o magari ti fai anche male. I guai veri, gli aspetti più sordidi e disperati sono solo sfiorati, educatamente accennati, lasciando alla malizia ed al coraggio dello spettatore il compito di completare questi indizi. Sembra quasi che la volontà di regia e produzione fosse quella di illuminare la condizione sociale dei tanti bambini poveri (milioni) che stanno dall’altro lato del processo delle adozioni internazionali. Accendere un faro sul risvolto miserevole di un subcontinente da sempre in via di sviluppo ma mai davvero aiutato ad emanciparsi o crescere. D’altro canto questa sensazione di smorzamento, di freno a mano tirato, si riflette anche sui momenti felici che vivono i personaggi, perchè sì, ci sono momenti commoventi e simpatici, ma sono sempre raccontati attraverso meccanismi codificati, sempre come dietro un vetro, senza mai riuscire ad avvicinarsi davvero. Il risultato finale è che siamo davanti a tutta una serie di quasi: quasi una favola, quasi un film di denuncia, quasi un film d’amore, quasi un film sociale.
L’impressione è quella del tipico film che ti facevano guardare a scuola la mattina. Grandi temi, grandi sentimenti, grandi informazioni, ma senza mai sbilanciarsi troppo che sennò devi andare a spiegare cose che poi non conviene.
Scelta legittima, è un lavoro che assolve completamente al compito di raccontare e di educare, fedele dunque alla sua vena didattica, ma che purtroppo sterilizza gli aspetti più artistici a discapito di una maggiore leggibilità.
Alla fine è un film con forse un grande cuore, ma con troppo poco carattere.